IL GIAPPONE, L’AUTUNNO, I SUOI COLORI

In Giappone, lo abbiamo già notato oramai più volte in questa sede, si vive un vero e proprio felice connubio con la natura. Il paese più tecnologicamente avanzato, la culla della perfezione robotica è ancora capace infatti, forse più di ogni altro posto su questo pianeta, di cogliere la piena essenza di ciò che lo circonda, dallo sbocciare o appassire di un fiore, all’arrossire o cadere di una foglia.
L’autunno archivia la stagione più calda ed umida dell’anno e, naturalmente, come ovunque sullo stesso emisfero, anche per il Giappone è quella più florida e bella: l’aria si addolcisce, la pioggia e i violenti tifoni estivi che hanno attraversato l’arcipelago scuotendolo da nord a sud pian piano si dissolvono. Tutto pare acquietarsi nell’attesa dell’inverno, che chiude il ciclo naturale delle stagioni.

L’autunno ha, però, per i Giapponesi, un valore molto particolare perché la bellezza del paesaggio è ancora una volta mozzafiato, come in primavera con i fiori di ciliegio. Tutto questo è racchiuso in un termine, koyo (紅葉): in lingua giapponese è sinonimo di autunno, ed indica le foglie di acero (altrimenti dette momiji). I momiji ,nel loro veloce passaggio dalla vita alla morte, in questa delicata fase si tingono di giallo oro e di rosso fuoco, accendendo così di mille bagliori il paesaggio che le circonda.
Il termine koyo vuole appunto indicare il lento mutare del colore delle foglie, e il fatto che momiji e koyo si scrivano addirittura con gli stessi caratteri sottolinea l’assurgere dell’acero ad immagine e simbolo autunnale del Sol Levante, come il fiore di ciliegio assurge ad immagine e simbolo primaverile del Paese.
La stagione del koyo non inizia nello stesso momento dappertutto: il rossore digrada lentamente da nord a sud, a mano a mano che le temperature iniziano la loro inesorabile discesa: si accende in Hokkaido, a nord, alla metà di settembre per spegnersi dopo circa 50 giorni nelle isole più meridionali dell’arcipelago.
Il rosso è naturalmente il colore predominante, ma in natura non ci sono soltanto gli aceri, anzi: è una moltitudine di altri alberi che nello stesso periodo mutano anch’essi, tingendosi di giallo o di marrone. Tutta questa profusione per la sensibilità giapponese è ugualmente ascritta allo stesso fenomeno del koyo, integrando e completando l’armonia dei colori.

E come per i ciliegi i Giapponesi amano celebrarne la fioritura con picnic magnifici ovunque essi sboccino, allo stesso modo essi non resistono in autunno a recarsi ovunque il rossore delle foglie abbia raggiunto il suo livello massimo di bagliore. Scatta così, in un intervallo che va dai 20 ai 25 giorni, la caccia ai momiji: in lungo e in largo si organizzano gite e camminate alla ricerca dei posti più belli dove ammirare il lento mutare delle foglie.
La tradizione è, come ovvio, antica, perché già nell’ VIII secolo, nel Man’yoshu (la celebre collezione di poesie antiche) si rappresentavano in versi scene di “caccia alle foglie rosse”, così come ve ne è traccia nel capolavoro dell’epoca Heian, il “Genji monogatari”; è di questo stesso periodo inoltre la trascrizione dei termini koyo e momiji con gli stessi caratteri.

Le foglie d’acero entrano simbolicamente anche nella cultura gastronomica tradizionale e in quella, altrettanto tradizionale, della stampa dei kimono: i tessuti utilizzati infatti per il confezionamento di preziosi abiti autunnali spesso raffigurano le splendide foglie d’acero, quelle stesse foglie che si utilizzano anche in cucina come ingrediente stagionale del tempura, chiamato “momiji tempura”, espressione culinaria rara a vedersi ma appropriatamente celebrativa della stagione che muore.

Loredana Marmorale

Fotografie: japfun.wordpress.comjreast.co.jpjapan-guide.comhanadventure.blogspot.com

IL SHOCHU, BEVANDA CHIC CHE FA FURORE

Che ne direste se vi invitassimo in una shochulounge o in un shochubar?
Forse in Italia non tutti sanno che accanto ai sakebar sono sempre più diffusi e stanno spopolando non solo in Giappone, ma anche in molte città degli Stati Uniti ed a Londra, i locali dove si degusta il shochu, la bevanda alcolica appartenente alla tradizione, che ha ormai superato in termini di consumo e gradimento il sake, da sempre considerato il signore degli alcolici.
Il fenomeno è davvero interessante, visto che fino ad una ventina di anni fa il shochu rappresentava il “cicchetto” degli anziani o dei lavoratori facenti parte delle sfere meno agiate.
Lo scenario è negli ultimi anni sensazionalmente cambiato: dai rumorosi pubs ai locali chic.
Non stupitevi dunque se al banco di uno di questi locali vi imbatterete in giovani donne impeccabilmente eleganti, che nel vostro immaginario ordinerebbero solo champagne, mentre sorseggiano proprio un bicchiere di shochu!
Ora ristoranti di stile sfoggiano la loro vasta selezione di shochu e soprattutto negli Stati Uniti troviamo persone disposte a pagare centinaia di dollari nelle aste web per assicurarsi le produzioni limitate.

L’onda del successo

All’inizio, prima del boom, veramente in pochi credevano che potesse raggiungere questo successo.
Il Shochu, pur appartenendo ad un centenaria tradizione giapponese non godeva infatti di grande fama. In Occidente, dove tutti conoscono il Sakè per averlo assaggiato, o quantomeno di nome, era sconosciuto ai più. Attualmente in Giappone, ma il fenomeno risale già al 2003, il Shochu ha imprevedibilmente superato nelle vendite proprio questa ben più celebre bevanda. Si può dire che anche grazie ad una operazione di “restyling” della sua immagine, ha conquistato una grande popolarità, diventando un vero e proprio fenomeno di tendenza.

Come viene prodotto…

Diversamente dal Saké che è prodotto mediante fermentazione, il Shochu è un distillato.
Può essere ottenuto dalla distillazione dell’orzo (Mugi), delle patate dolci (Imo), del riso (Kome), della canna da zucchero (Kokuto), del grano saraceno (Soba) ed ogni varietà conserva il gusto degli ingredienti d’origine, selezionati con cura. Ci sono sicuramente diverse ragioni che spiegano questo meritato successo. E’ certo che uno dei suoi punti di forza e distinzione, al di là delle strategie di marketing e dei fenomeni di costume, è proprio la versatilità e la capacità di evidenziare i suoi aromi primari. La singola distillazione ne preserva l’aroma, a differenza della doppia distillazione di prodotti come la vodka, a cui sono spesso aggiunti aromi dopo tale processo. Altri ingredienti utilizzati, il sesamo, le patate e le carote, il riso Thai.
Si annoverano tra i vari tipi anche il Kasutori Shochu che è prodotto con i fondi della fermentazione del Saké ed una varietà di Awamori in cui viene utilizzato il riso Thai.
Ben si comprende che con più di 3000 varietà oggi a disposizione – alcuni produttori si sono sbizzarriti lanciando sul mercato Shochu di latte, zucca, pepe verde o castagna – la bevanda attrae e soddisfa i palati più esigenti e “curiosi”. Insomma…ci sembra facile sentire profumo di successo anche in Occidente…o meglio, aroma del successo!

Un po’ di storia… sulla via del Shoshu

L’origine della bevanda non è certa.
Si pensa possa essere giunto o a Kyushu attraverso la Thailandia e Okinawa attraverso, o nell’isola di Iki dalla Corea dove era arrivato per mezzo dei Mongoli, i quali avevano a loro volta acquisito il processo di distillazione dalla Persia. Ad Okinawa il distillato è conosciuto con il nome di “Awamori”. In base alla documentazione storica in nostro possesso, il Shochu avrebbe fatto il suo ingresso quantomeno nel sedicesimo secolo. Vale la pena citare quanto scrive il missionario Francis Xavier che visitò la Prefettura di Kagoshima nel 1549. Egli racconta di una bevanda prodotta con il riso e di non aver visto alcun “ubriacone”, ciò perchè coloro ne bevevano in quantità finivano con il crollare immediatamente addormentati.

L’alcool fa la differenza… ed anche le calorie!

In Giappone, la maggioranza dei Shochu contiene il 25% di alcool, ma se ne trovano anche alcuni al 35 e al 40%.
Di norma la gradazione alcoolica è pertanto inferiore a quella della vodka, cui viene a volte impropriamente paragonato. Merita un cenno l’aspetto delle calorie. Lo Shochu apporta infatti un ridotto contenuto calorico, non contiene infatti né zucchero né sostanze adulteranti. Due porzioni da 30 ml forniscono circa 35 calorie. Ecco perché viene apprezzata anche dai più attenti alla forma fisica…

E la salute?

Il fatto che sia una bevanda a basso contenuto calorico è già un dato confortante per la nostra linea.
Ma c’è di più… Vi è infatti chi sostiene che sia, ben si intende in piccole quantità, un toccasana proprio per la nostra salute. Alcune ricerche condotte al Miyazaki Medical College hanno dimostrato che il Shochu contiene un enzima particolarmente efficace al fine di evitare le trombosi. Questo dato ha senz’altro esercitato un suggestivo richiamo nei confronti dei più attenti alla salute. Ma al di là dei risultati delle ricerche, una nota di colore ha contribuito ad accrescere la fama della bevanda…ed è il fatto che possa vantare un assai longevo quanto fervido ammiratore…. Entrato nel guinness dei primati, il signor Shigechiyo Izumi, un cittadino giapponese che ha orgogliosamente compiuto 120 anni dichiara una sviscerata passione per il shochu. Ed ecco che spuntano teorie sulla longevità…
Un ultimo cenno merita la diffusa opinione che questo tanto amato liquore non causi alcuna sindrome da dopo-sbornia…non sta a noi dire provare per credere…

Gustarlo

Ancora una volta la versatilità si mette in luce come la quintessenza della bevanda. Il Shochu si può gustare liscio o con ghiaccio. Diluito con acqua fredda o calda, mischiato con te oolong o succhi di frutta, o con l’aggiunta di limone, pompelmo, mela o ume.
Risulta quindi adatto a tutte le stagioni ed in virtù della gradazione alcolica non troppo elevata può essere gustato come bevanda da pasto.
Non solo, ma sono proprio le molteplici sfumature che ne caratterizzano i vari tipi a renderlo un perfetto complemento per diversi piatti e diverse cucine.
Come cocktail, nelle sue mille creative versioni, scandisce la vita notturna nei locali alla moda.

Il preferito dalle donne

Ciò che rende davvero unico il boom del Shochu e lo connota come fenomeno di costume è che sono le donne, soprattutto le giovani, a rappresentare la maggioranza della schiera di estimatori.
Risulta infatti che il 60% dei consumatori sono donne tra i 25 ed i 30 anni, senza dubbio le protagoniste nel tracciare lo scenario della moda, dello stile e del costume.

Anche l’occhio vuole la sua parte

Sì, perché ancora una volta l’estetica giapponese si esprime e si distingue nella raffinatezza e ricercatezza del design delle bottiglie dei vari produttori.
…A questo punto… non ci resta che sollevare i bicchieri e brindare! …ma ci raccomandiamo, sempre con moderazione…!

Marcella Bagnoli

Foto in copertina di Christophe Richard su Flickr used under CC

SAKE’ OTOSO’

OTOSO (Sake per cerimonia augurale)

La mattina del 1 gennaio, giorno di Capodanno, la famiglia tipica giapponese si alza, si inginocchia e prega dinanzi all’altarino shintoista o buddista di casa; quindi si siede a tavola e comincia a sorseggiare una tazza di otoso sake.
Come vuole la tradizione, l’ otoso sake viene bevuto per scacciare via ogni negatività dalla propria casa e per assicurare lunga vita a tutti i presenti. Infatti la parola stessa viene scritta utilizzando i caratteri 屠蘇 che significano rispettivamente “sconfiggere” e “spiriti maligni”.
Il detto in uso dice “se una persona ne beve, nessun membro della sua famiglia si ammalerà, se tutta la famiglia ne beve, nessuno nel villaggio si ammalerà”.
L’usanza di bere l’ otoso sake cominciò in Cina sotto la dinastia T’ang (618-907), e venne poi adottata nel Giappone dell’epoca Heian (794-1185) esclusivamente dal ceto aristocratico.

Poiché l’ otoso è un composto di sake unito e mescolato ad erbe medicinali, successivamente il suo utilizzo divenne di uso comune; ancora fino a pochi decenni fa esisteva l’usanza per i farmacisti di regalarne piccole quantità ai propri clienti in occasione dei festeggiamenti del Capodanno. Tradizione vuole ancora che l’ otoso venga servito in tre tazzine di differenti dimensioni, chiamate “sakazuki”: si comincia con la più piccola, che si passa tra tutti i membri della famiglia per un sorso.
L’usanza varia da regione a regione, ma generalmente il più giovane inaugura la bevuta, per poi passare la tazza via via fino al più anziano. Questo fatto pure probabilmente ebbe origine in Cina, laddove i giovani lo assaggiavano per primi per controllarne una eventuale ed eccessiva tossicità, e solo successivamente lo passavano ai più anziani. In Giappone però, tranne che nelle occasioni davvero formali, è il capofamiglia che comincia a sorseggiarlo.
L’ otoso sake può anche essere preparato in casa: in Giappone infatti si vendono appositamente delle confezioni in bustine. La sera della vigilia di Capodanno se ne lascia macerare una in 300 ml di sake o di mirin per circa otto ore. Al mattino l’infuso alcolico sarà pronto per essere servito a colazione per un sorso e poi per il pranzo tradizionale di Capodanno a base di oseci.
E come vuole la tradizione, si brinda tutti insieme attorno al tavolo.

KANPAI!! (SALUTE)

Loredana Marmorale

Foto di copertina di Midorisyu su Flickr used under CC

SAKE: IL GUSTO DELLA STORIA GIAPPONESE

Il sake nasce dalla lavorazione del riso grazie a un sofisticato processo produttivo di origini antichissime e unico nel suo genere, che dà luogo a una straordinaria e inconfondibile complessità di profumi e aromi.
E’ la bevanda fermentata che contiene la maggiore quantità di alcool al mondo ma è anche la più ricca di vari fattori nutritivi fra cui zuccheri, amminoacidi, acidi organici, vitamine.
Un vero tesoro nazionale.

Ricchezza..

Il sake è per i Giapponesi come il vino per gli Italiani. Esso accompagna la loro vita nei momenti più importanti, tutte le cerimonie religiose e gli eventi civili vengono suggellati bevendo un bicchiere di sake: il raggiungimento della maggiore età, il matrimonio (con il rito “san san kudo”), una vittoria elettorale, un successo aziendale, la vittoria di un torneo di sumo, un funerale…
Oggi esistono tante varietà di sake in Giappone quante di vino in Italia: la quantità prodotta e consumata si è ridotta ma la qualità si è elevata. Così il sake che giunge sulle tavole europee oggi è il meglio che si possa desiderare.
In una goccia di sake è contenuto il ricco frutto di secoli di storia e cultura straordinaria.

…E purezza

Al contrario del vino, il sake non contiene conservanti e, nel caso dei sake di qualità, nemmeno altri additivi. Per questo può collegarsi a questa preziosa bevanda un concetto: quello di purezza.
E purezza è data dalla raffinazione dell’ingrediente essenziale: il riso.
Il riso utilizzato per il sake (sakamai) è diverso da quello che si usa in cucina: ha un chicco più grande, in cui si concentrano in abbondanza amidi. Le varietà più utilizzate sono circa una decina.
Il grado di raffinazione, seimaibuai, è espresso attraverso la percentuale del chicco che viene utilizzata. Se il seimaibuai è almeno il 70% del peso totale del chicco e si è seguito un particolare disciplinare di produzione, al sake può essere attribuita una denominazione di qualità.

Il sake con queste caratteristiche di purezza ha aromi delicati ed eleganti.
La denominazione di qualità, a differenza di quella utilizzata in Italia per il vino, non è legata al territorio di provenienza: le zone più famose per il sake si trovano a nord di Tokyo, ma i produttori possono sperimentare e selezionare le materie prime migliori di ogni provincia così da ottenere un prodotto unico.
Un altro elemento importante è l’acqua: l’acqua considerata migliore o comunque più nota è quella ricca di fosforo e potassio, con una piccola quantità di magnesio e calcio, della sorgente Miyamizu vicino a Kobe.
La lavorazione, molto complessa, si basa sulla fermentazione di acqua, riso, spore del fungo Aspergillus orza, acido lattico e lieviti e dà luogo contemporaneamente alla saccarificazione e alla fermentazione.
Ciò permette al sake di ottenere un grado alcolico elevato: generalmente, il sake in vendita presenta una gradazione tra il 15% e il 16%.

Assaporare il Sake

Quando viene venduto, il sake è già al massimo della sua parabola qualitativa e va consumato al più presto per godere della sua freschezza: esso mantiene perfettamente integre le sue qualità per un periodo di un anno dalla produzione, sempre che sia conservato nel modo corretto (lontano dalla luce e alla temperatura massima di 20°).
Il sake va tradizionalmente servito e degustato in una piccola coppa di ceramica (tokkuri) e può essere bevuto a varie temperature: ad ognuna di esse, la bevanda assumerà un aroma e un gusto diverso.
Esistono inoltre sake più aromatici con sentori fruttati.
La valutazione del sake, come quella del vino, è basata sull’osservazione degli elementi visivi, olfattivi oltre che di gusto; un vantaggio, rispetto al vino, è che il sake è molto facile da abbinare ai cibi, anzi ne esalta i sapori: come disse un sommelier giapponese, vino e cibo sono due mani con le dita bene aperte che si incastrano fra loro solo quando l’abbinamento funziona, mentre sake e cibo sono una mano aperta che va ad avvolgere una mano chiusa a pugno.

Delle varietà di sake, delle occasioni e delle ritualità ad esso legate, dei modi di berlo e degli abbinamenti ideali avremo modo di parlare nei prossimi appuntamenti mensili.

Ma ora….brindiamo!

Federica Cecconi

BERE IL SAKE

Bere il sake è un’esperienza che va fatta almeno una volta…ma può essere vissuta molteplici volte scoprendo profumi e sapori sempre diversi!
Esistono infatti vari tipi di sake, mutevoli al palato, che danno il loro meglio a temperature differenti e con abbinamenti di cibi i più particolari.

I tre livelli di temperatura per il sake caldo sono 35°C, 45°C e 55°C anche se il più diffuso è l’“hitohada” (livello pari alla temperatura corporea). Il modo migliore per scaldare il sake è di porlo nel Tokkuri (tradizionale contenitore in ceramica) e immergere questo nell’acqua che si andrà a scaldare: successivamente si verserà nelle coppette denominate “sakazuki” o “choko”.

Questa cultura della ritualità si manifesta particolarmente in antiche cerimonie come la “Kagami Biraki” o la “San-san-ku-do” in cui il sake è protagonista: la Kagami Biraki risale a circa 300 anni fa come cerimonia beneaugurante per una vittoriosa battaglia ed ora vive nel rito di apertura delle botti di sake durante le inaugurazioni di occasioni speciali o sacre.
La San-san-ku-do (letteralmente tre-tre-nove) è invece un rito propiziatorio che si tiene durante i matrimoni Shinto e vede gli sposi intenti in tre assaggi di sake da coppe di diverse dimensioni (un tempo decorate con raffinate immagini rappresentanti il cielo, la terra e l’umanità): il numero tre è di ottimo auspicio in Giappone.

E come non può essere di buon auspicio il sake, una bevanda dalle mille sfumature e il cui bouquet è frutto di secoli di tradizione!

Federica Cecconi

UNA TRADIZIONE SORPRENDENTE: SAKE, LEGNO E…

Un modo antico e al tempo stesso inedito di provare il sake è di berlo dal masu. Il masu è una piccola scatola di legno (viene adoperato il legno di sugi, chiamato volgarmente cedro giapponese, o hinoki, una varietà di cipresso) a base quadrata: originariamente utilizzata come misura di una porzione di riso (la misura standard è di 180 millilitri), venne usata dai produttori di sake per primi come bicchiere per assaggiare i risultati del proprio lavoro e, prodotta con un materiale facilmente reperibile ed economico, si diffuse presto nei sake bar.
Per gli intenditori di oggi forse è preferibile degustare il sake nel vetro scoprendone così in purezza i vari sentori, più fruttati e floreali e meno legnosi di un’epoca in cui il sake veniva lavorato e conservato in recipienti anch’essi in legno; come pure i giapponesi di oggi senz’altro preferiranno la comodità di sorbire il sake dal bicchiere…ma la tradizione del masu non è scomparsa!

Ci si può addirittura imbattere in una sorta di compromesso fra antichi usi e abitudini moderne, per cui il sake viene servito in un bicchiere a sua volta collocato nel masu. Il bicchiere, in segno di ospitalità e accoglienza, viene riempito fino a che il sake non debordi e vada a riempire anche il masu. Si berrà allora tutto il contenuto del bicchiere come pure del masu: quest’ultimo rilascerà per i palati più attenti note di legno.
Esistono poi masu laccati che permettono di concedersi il piacere di assaporare i bouquet dei moderni sake in una scatola che non rilasci profumi, richiamando nell’estetica i tempi andati.

…Sale!

Ma la tradizione vuole che si beva direttamente dal masu e…non abbiamo ancora menzionato un altro protagonista di questo modo di bere il sake…con il sale!
Va posta una presa di sale su un angolo del masu, o meglio giusto accanto ad un angolo, stando bene attenti che il sale non cada nel sake.
E’ un’usanza molto particolare e curiosa: essa ha una valenza simbolica in quanto il sale in Giappone veniva spesso utilizzato nei rituali di purificazione ed è da sempre considerato di buon auspicio. Inoltre il sake un tempo era molto più dolce di oggi e risultava naturale accompagnarlo con alimenti base come il miso o il sale.
Quando si porta alla bocca il masu, il sale tocca solo i lati delle labbra e il gusto predominante rimane quello del sake mentre il sale fa da gradevole contorno. Questo abbinamento stuzzica l’appetito e con l’appetito la voglia di bere….insomma, vale senz’altro la pena assaporare questa esperienza con il sale!

Il taru-zake

Nel masu si serve solitamente un tipico sake barriqato: il “Taru-zake”. Esso è prodotto lasciando riposare il sake due giorni in un contenitore (“taru”) di legno, che gli conferisce un affascinante aroma di legno e resina…aroma che viene esaltato dal sale e dal profumo intenso del masu stesso.
La tendenza a consumare questo tipo di bevanda si sta diffondendo molto, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, in particolare nella avanguardistica New York: il taru-zake è apprezzato da molti soprattutto perché può essere abbinato gradevolmente ad ogni varietà di cibo.
In Giappone viene invece consumato specialmente in occasione dei festeggiamenti per il nuovo anno: fra dicembre e gennaio nelle vetrine è facile vedere in bella mostra contenitori e bottiglie di varie dimensioni di questo sake dal profumo intenso come la terra del Giappone e i suoi elementi.

Federica Cecconi

I LUOGHI DEL TE’

Il tè giapponese non si assapora al bar, seduti a un tavolino nel clamore dei marciapiedi o al banco frastornati da luci e immagini, ma nella stanza della cerimonia: un luogo fisico e spirituale.
In essa infatti sono stati trasfusi gli ideali dell’estetica zen: la ricerca della povertà e semplicità, il rifiuto assoluto dell’ostentazione e degli orpelli che richiamino alla vita di tutti i giorni, la liberazione da affanni e preoccupazioni terrene…tutto quel che permetta di isolarsi temporaneamente dal mondo per entrare in una dimensione estetica di serenità in cui ai pensieri si sostituiscono le emozioni e al giudizio la condivisione…in altre parole il vuoto.
Per ottenere ciò la stanza è praticamente priva di alcun ornamento e contenuto.

Inoltre in quest’ottica fin dall’inizio della sua istituzione tutti coloro che vi entravano erano considerati allo stesso livello: tutti quindi dovevano seguire le stesse regole, abbandonando i panni vestiti nel mondo. Basti pensare al “nijiriguchi”, la piccola e assai bassa porta d’ingresso alla stanza: chi entrava, anche la persona più importante, doveva inchinarsi. Pure i samurai dovettero farlo, deponendo le altrimenti inseparabili spade, prima di abbassarsi.

La stanza da tè sorge all’interno di un meraviglioso giardino. E’ il giardino del tè, chiamato poeticamente “Roji” (“sentiero rugiadoso”): esso è costituito da un sentiero di pietre naturali o levigate affiancato da sempreverdi, bambù, arbusti da fiore e rocce. Nel Roji, di origine cinquecentesca, strutture di utilità pratica divennero nel tempo elementi d’arredo tipici di ogni giardino giapponese: i bacili scavati nella roccia per sciacquarsi le mani e la bocca, le tipiche lanterne in pietra, pozzi o pagode. Progressivamente la casa del tè assunse l’aspetto di un eremo sperduto tra le montagne, immerso nella vegetazione dall’apparenza volutamente spontanea che ne caratterizzerà lo spirito fino ai giorni moderni.
L’unica dimensione che si confà allo spirito zen è dunque quella della natura che viene accolta con tutti i suoi profumi, suoni e colori ed entra in armonia con la sala ed i presenti. E’ la natura che viene imitata e trasformata, conservandone gli aspetti più essenziali, per la costruzione della stanza. Il legno utilizzato varia a seconda del livello di formalità: legno di cipresso più importante; di pino, sandalo, gelso e acero semi-formale; cedro, castagno o bamboo nelle stanze più semplici. A volte viene utilizzato anche legno proveniente da antichi edifici.
La stanza, detta “chashitsu”, ha pareti grezze e, per dimensioni e semplicità, contrasta spesso con il resto della casa, che può costituire una unità separata o adiacente. Al suo interno può avere pochi tatami (le spesse stuoie incassate in una base di legno sulle quali è d’obbligo camminare senza scarpe) ma in generale ha quattro tatami e un mezzo tatami al centro, dove viene posta la teiera. Può comprendere un ripostiglio per gli utensili e una stanzetta d’attesa.

Da un lato della sala c’è il “tokonoma”, una piccola nicchia in cui è appeso uno scritto eseguito da un calligrafo esperto di “shodo”. Ad un altro lato è posto il “toko-bashira”, una colonna in legno appena sgrossato cui è appeso un vasetto in cui qualche fiore di stagione viene disposto secondo l’arte del “chabana”. Quest’arte così speciale crea composizioni che attirano tutta l’attenzione degli astanti sulla bellezza essenziale della composizione: un ulteriore richiamo simbolico alla semplicità e alla perfezione della natura che si amplifica gustando l’inimitabile bevanda!

Lo splendore del meriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lietamente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini.
Kakuzo Okakura

Federica Cecconi

NAMAHAGE: CAPODANNO CON I DEMONI

Quest’anno, in occasione del Capodanno, vogliamo segnalarvi una manifestazione folkloristica giapponese molto particolare, chiamata Namahage.
Narra una leggenda che, durante la dinastia cinese degli Han, l’imperatore si fosse mosso dalla Cina accompagnato da cinque orchi (oni in giapponese) ed avesse invaso la penisola di Oga, nella prefettura di Akita, Tohoku (la zona nordorientale del Giappone oramai tristemente noto per il terribile cataclisma dello scorso 11 marzo). Ivi giunto l’imperatore cinese insieme con i suoi oni si era lasciato andare a ruberie di raccolti e rapimenti di giovani donne.
La comunità locale, sconvolta ed impaurita, aveva quindi deciso di scendere a patti, almeno apparentemente, con gli orchi, nel seguente modo: se essi avessero costruito in una sola notte una scala di pietra di 1000 gradini per il tempio del luogo, il villaggio avrebbe donato loro tutte le donne giovani del paese. Al contrario, il fallimento dell’impresa avrebbe comportato l’immediato abbandono della zona.
Gli oni acconsentirono ma, arrivati al gradino 999, udendo il canto del gallo che annunciava l’alba e convinti di aver perso, si ritirarono sulle montagne come convenuto: quindi non seppero mai che quel canto era stato un espediente che la comunità locale aveva trovato grazie al “matto” del villaggio, bravissimo nelle imitazioni… Ma anche se il villaggio si liberò della minaccia immediata degli oni, si dice altresì che da allora questi, nell’ultimo giorno dell’anno, ritornino nella zona a rinnovare le loro pretese.
La tradizione giapponese legata alla sua religione naturale, lo shintoismo, prevede già una gran quantità di dei e spiriti della natura, nonché di demoni. I namahage, derivati dall’antica leggenda degli orchi e ricordati, appunto, a Capodanno, possono essere quindi appunto ascritti tra questi ultimi.
Ma cosa c’entrano i demoni e la loro spaventosa presenza con il Capodanno? Pare che essi servano da rituale di purificazione delle anime, ed arriverebbero dalle montagne per redarguire tutti quelli che, durante l’anno, sono stati pigri, indolenti, scansafatiche e convincerli con strali e minacce a ritornare sulla retta via a partire dal primo giorno del nuovo anno, quindi immediatamente dal giorno successivo.

La stessa parola namahage etimologicamente deriva infatti da un termine dialettale che indica il rossore delle guance di chi suole sostare un po’ troppo accanto al kotatsu, il braciere tradizionale giapponese. Chi sedeva troppo al caldo veniva quindi riconosciuto dal colore rubizzo delle gote e ciò voleva dire troppo ozio e poco lavoro, quindi, per estensione, un danno per la comunità: i demoni servivano quindi proprio a scuotere il pigro dalla sua indolenza e a riportarlo attivamente in seno alla comunità, in linea con lo spirito fondamentale per il popolo giapponese, dove non è “chi fa da sé “ che “fa per tre”, ma l’esatto contrario.
Inutile dire che questa tradizione venga ora rispettata e il rituale celebrato oramai a tutto “vantaggio” della popolazione più giovane, quindi dei bambini (ma originariamente ne erano destinatarie anche le giovani mogli che non dedicavano troppo tempo alla cura della casa e dei loro mariti!) E allora cosa accade il 31 dicembre? Tutti i giovani dei villaggi per una sera calzano spaventose maschere da demoni e costumi tipici e girano per le case a “spaventare” letteralmente i bambini; molto spesso avviene addirittura che la comunità si riunisca in apposite sale per assistere alla messinscena dei demoni che minacciano i bambini di trascinarli via con sé sulle montagne se gli giungerà notizia che sono stati pigri, svogliati a scuola, disubbidienti con i genitori, insomma dei bambini “cattivi”….
L’atteggiamento degli attori, spesso alterato dai classici fiumi di sakè che vengono loro offerti nel peregrinare di casa in casa, è talmente convincente da indurre la maggior parte dei bambini al pianto, sotto lo sguardo divertito e tra le risa dei genitori! I demoni, ad un certo punto, vengono però “convinti” dai premurosi papà a ritirarsi: essi accettano di buon grado a patto che i bambini promettano di essere buoni e di fare il loro dovere, cosa di cui si sincereranno l’anno seguente nella prossima visita di fine anno.

Sebbene la leggenda dei 999 scalini ed il suggestivo rituale dei namahage siano un fenomeno locale tipico quasi esclusivamente del nord-est del Giappone, come si è detto, attrae ogni anno sempre più visitatori, che a centinaia accorrono da tutto il paese a vedere i demoni che danzano, urlano e fanno piangere i bambini loro e quelli degli altri.
Pur sembrando forse un po’ orrifico ai nostri occhi occidentali, in ogni caso è un modo diverso di intendere l’arrivo del nuovo anno, sferzante e rigenerante per lo spirito… anche per quello degli adulti, a nostro modesto parere, non solo per quello dei bambini!

Buon fine anno a tutti!

Loredana Marmorale

Per le fotografie: cafebunka.comnamahage.co.jp