Siamo in autunno… la natura tutta ci rammenta che la stagione rigogliosa è terminata, i colori intorno a noi si spogliano dei toni accesi e brillanti simboli del sole e del caldo, tutto cambia intorno a noi. L’autunno è una stagione molto amata in giappone, perché regala i momiji, le mutazioni di colore delle foglie di acero che assumono meravigliose tonalità di rosso. É un fenomeno talmente importante da essere monitorato da speciali servizi meteo a partire dal mese di ottobre. Le montagne diventano vere e proprie mete di pellegrinaggio per ammirare questo splendido fenomeno. Ma in autunno anche la cucina cambia aspetto e gusti, l’autunno è infatti soprattutto la stagione dei funghi; e proprio ai funghi dedichiamo il primo capitolo della sezione “ricette”.
Una peculiarità della cucina giapponese è la sua spiccata originalità basata su una grande competenza nella sperimentazione non tanto di nuove combinazioni di ingredienti quanto di un continuo miglioramento delle tecniche di cottura. Esistono vari metodi per cucinare i cibi che, anche grazie ai brevi tempi di cottura, hanno tutti un unico obiettivo: un gusto perfetto. In primo luogo la frittura (agemono), che prevede la completa immersione del cibo nell’olio bollente per garantire uniformità di cottura: dal gustoso karaage, frittura di carne di pollo marinata, alla prelibata tempura, tecnica per la frittura di pesce o verdure che utilizza ingredienti a freddo. Il metodo risale al 1550, quando fu introdotto da missionari e commercianti portoghesi che quattro volte l’anno (Quatuor Tempora, da cui “Tempura”) praticavano il digiuno dalla carne, ed è stato perfezionato fino ad ottenere il risultato friabile e delicato che conosciamo!
Un altro tipo di cottura tipica è la bollitura di carne, pesce, funghi o verdure nel brodo (shirumono): la base per minestre e zuppe della cucina giapponese è il dashi, leggero e limpido brodo di pesce che dona un tipico sapore alla celeberrima zuppa di miso ma anche alla mizutaki a base di pollo e alla zoni, zuppa aromatizzata tipica delle feste di fine anno….e molte altre sono le minestre presenti nella tradizione giapponese servite all’interno del nabe, una pentola in argilla che solitamente viene posta su un fornello al centro della tavola ed a cui i commensali possono attingere liberamente celebrando un rito di armonia e convivialità. Yakimono è il termine usato per quelle pietanze (carne, pesce, verdure, tofu, pasta) cotte senza immersione in un liquido: si tratta di un metodo di cottura con cui si arrostisce il cibo, in genere marinato, sulla piastra (teppanyaki) o allo spiedo (yakitori) o si rosola in un nabe di ghisa come per il sukiyaki, altro piatto comune nelle feste di capodanno realizzato con fette sottili principalmente di manzo e verdure che dopo la cottura vengono immerse nell’uovo sbattuto e acquisiscono un sapore davvero unico!
Esiste infine la cottura a vapore (mushimono) che avviene in contenitori sovrapposti (mushiki), dai quali gli alimenti (pollo, pesce o verdure) vengono poi tolti per essere serviti in singole porzioni ben calde ma si realizza anche in piccole coppette coperte (chawan) nel caso di deliziose e originalissime specialità distribuite a ciascun commensale, come il chawan mushi, piatto a base di pollo, e l’odamaki mushi, con l’aggiunta di pasta. La cottura al vapore è molto interessante dal punto di vista nutrizionale poichè mantiene intatti tutti i benefici dei cibi e, facilmente digeribile, è priva di grassi. Inoltre, si concilia alla perfezione con il concetto tipicamente giapponese di estetica del cibo: vale a dire pura semplicità per valorizzare al massimo il gusto originario di ogni ingrediente.
La parola teppanyaki deriva da teppan (鉄板), cioè griglia, piatto di ferro e yaki (焼き), cottura saltata, e indica così, più che un piatto unico, un unico tipo di cottura degli ingredienti più disparati. Ma le sue origini sono tuttora misteriose: alcune fonti storiche ritengono che la cottura teppanyaki sia iniziata due secoli or sono, quando più famiglie di uno stesso villaggio usavano preparare assieme il pasto quotidiano su grosse griglie comuni; altre fonti collocano invece geograficamente la “cottura alla griglia teppan” nella città di Kobe all’inizio del XX secolo. Ivi avveniva spesso infatti che il pescato locale venisse esposto al pubblico e cotto su delle grosse griglie proprio al cospetto degli avventori.
Nel 1945 fu poi il ristorante Misono a creare il teppanyaki così come lo conosciamo oggi, ovvero come un vero e proprio spettacolo di intrattenimento culinario, in cui lo chef diletta i clienti con la sua maestrìa e rapidità di esecuzione. La piastra è sistemata direttamente ai tavoli e la cottura delle pietanze prescelte, tradizionalmente okonomiyaki e yakisoba, è una performance spesso acrobatica. Coniugando tradizione giapponese e cucina occidentale, vero vanto della catena Misono a cui si deve la svolta in tal senso, vengono proposte per il teppanyaki anche carni bovine (in particolare l’eccezionale manzo di Kobe), pollo e pesce vario, oltre a gamberi, aragoste, capesante; immancabili il riso fritto e le verdure più disparate.
Tutto viene tagliato in piccoli pezzi e posto sulla piastra, dove viene rigirato e rimescolato a dovere con l’ausilio di un grosso cucchiaio, una forchetta e due spatole. I clienti si servono con le apposite bacchette direttamente dalla piastra, e si condisce tutto con l’immancabile salsa di soia. Negli Stati Uniti, dove il teppanyaki fu reso famoso nel 1964 dal wrestler giapponese Aoki “Rocky” Hiroaki con la catena di ristoranti “steakhouse” Benihana, l’aspetto acrobatico e le abilità da giocoliere dello chef sono molto accentuati; non è quindi insolito vedere uova che volteggiano in aria per poi ricadere nel cappello da cuoco per finire schiacciate sulla piastra ed essere grigliate; oppure code di gamberi che spuntano dal taschino della divisa, o, per concludere, veri e propri vulcani infuocati creati con anelli di cipolla, impilati direttamente sulla piastra…. Divertente e gustoso!
Uno dei piatti più gustosi, che risente maggiormente della contaminazione occidentale pur mantenendo uno “speciale” gusto giapponese, è certamente l’hamburger, o, detto alla giapponese, hanbaagu. La sua ricetta è molto semplice… ve la proponiamo qui di seguito una nostra versione: provate e sappiateci dire!
La carne di manzo macinata viene innanzitutto mescolata a cipolle bianche precedentemente tritate finemente e soffritte e alle uova, con aggiunta di un pizzico di sale e pepe bianco. Si unisce al composto siffatto anche della mollica di pane imbevuta nel latte. Le polpettine che se ne ricavano vanno quindi fritte in olio precedentemente riscaldato, in una padella coperta, in modo che non si secchino troppo durante la cottura, a fuoco medio. Bisogna inoltre fare attenzione a non schiacciarle, come si fa con i nostri normali hamburger, onde evitare che fuoriesca il sughetto che esse contengono.
Quando le polpette hanno finalmente assunto un bel colore brunito si possono togliere dal fuoco e lasciar riposare. Nella padella nel frattempo si versano 1 o 2 tazzine d’ acqua, in aggiunta da 1 a 3 tazzine di shoyu, l’onnipresente salsa di soia, a piacere un po’ di vino rosso che conferisce al composto un aroma speciale, un po’ di ketchup e del prezzemolo tritato fine. Si abbassa di poco la fiamma e si mescola tutto fino ad addensarlo, quindi si versa sugli hamburger; infine la maionese come tocco finale. Ecco a voi… Buon appetito!
La cucina giapponese, lo abbiamo già più volte ricordato, è fusione di cibo e natura, gusto ed estetica, unione virtuale e reale dei sensi. Non è ricercata ‘haute cuisine’, ma filosofia di vita: il Bello è naturale, la natura è intorno a noi, e di conseguenza mangiare diventa il mezzo attraverso cui noi e la natura entriamo in intimo contatto. La cucina, quindi, che celebra questo connubio, deve essere Bella, deve divenire un’Arte. La cucina kaiseki è la sintesi più alta e perfetta di questa filosofia e le sue origini sono ancora una volta da ricercare nel buddhismo Zen più antico. La parola kaiseki può essere scritta con ideogrammi diversi e questo identifica due stili gastronomici lievemente differenti, almeno alle origini. Se si scrive 会席料理 si intende un tipo di banchetto conviviale costituito da più portate e servito secondo alcuni crismi convenzionali. Se si scrive 懐石料理 ci si riferisce invece al pasto frugale che i convenuti al “chanoyu”, la cerimonia del tè, consumano durante l’evento; infatti esso è noto anche come “cha kaiseki” 茶懐石. Il termine così coniato significa letteralmente “sasso in grembo” e trae origine dall’antica pratica dei monaci Zen, durante la meditazione e la cerimonia del tè, di calmare i morsi della fame tenendo premuto un grosso sasso molto caldo sul ventre. Il pasto che veniva servito, di conseguenza, era frugale proprio per non distogliere i monaci dalle loro pratiche meditative.
Ai giorni nostri la frugalità è rimasta soltanto nella quantità di cibo contenuto nelle singole portate, che invece risultano essere molto numerose! Esse devono innanzitutto ben combinarsi tra di loro: i sapori, l’aspetto curato fin nei minimi particolari, i colori, l’abbinamento a piatti, ciotole, ceramiche, porcellane, nulla viene lasciato al caso. L’accordo con la natura deve essere totale, quindi solo ingredienti di stagione freschissimi devono entrare a far parte del menu delle portate. Tutto viene poi guarnito con foglie, fiori, abbellimenti anche commestibili, ma rigorosamente ‘di stagione’.< br />Laddove il kaiseki delle origini comprendeva una zuppa di miso e tre sole portate successive, l’evoluzione “laica” che si è avuta in seguito ha visto il menu aumentare fino a 15 piatti, tutti contrassegnati da un nome ben definito. Anche la sua base prettamente vegetariana è stata progressivamente spostata verso una dieta più varia che si aprisse a comprendere pesce e, anche se più raramente, carne.
Tra le portate ne ricordiamo alcune:
Sakizuke, un antipasto
Hassun, a base di sushi, è il piatto che apre la serie stagionale delle portate
Mukozuke, a base di sashimi
Takiawase, piatto vegetale accompagnato da carne, pesce o tofu
Yakimono, pesce di stagione grigliato
Gohan, piatto di riso con aggiunta di ingredienti che variano a seconda della stagione
Mizumono, dessert di stagione, a base di frutta, gelato o dolce
La cucina kaiseki, che diviene costosa quando è servita in ristoranti di lusso, nella tradizione giapponese è tipica invece delle ryokan, gli alberghi tradizionali giapponesi generalmente adiacenti ai giardini termali. Kyoto è particolarmente nota per la sua cucina kaiseki, tanto che per sottolinearne l’esclusiva viene anche semplicemente chiamata “kyoryori” 京料理, cioè “Cucina di Kyoto”. Accanto a questa cucina tradizionale in Giappone convivono altri stili gastonomici, ad esempio la cucina contemporanea giapponese, che dall’anima storica prende l’avvio per trasformarla secondo canoni di assoluta qualità più legati alla realtà odierna, così come succede anche nel resto del mondo. Ma se la tradizione nella sua forma più antica ed elevata assurge ad espressione ricercata e ai ranghi dell’alta cucina, non va dimenticato che il Giappone ha anche guardato fuori da sé e dai propri confini per assorbire, rielaborare e sposare gusto autoctono e ricette d’oltremare, sia orientali, ma anche e soprattutto occidentali. Nasce così la cucina Yoshoku 洋食, che elabora ricette tradizionali con ingredienti o cotture stranieri e che oggi è una parte importante dell’offerta gastronomica nipponica quotidiana. Essa venne introdotta durante la Restaurazione Meij (1867, quando cioè il potere shogunale fu definitivamente soppiantato e sostituito da quello imperiale, mai realmente tramontato), periodo in cui massima divenne l’attenzione del Giappone nei confronti di usi e costumi d’Occidente.
Il notevole cambiamento alimentare e gastronomico si ebbe soprattutto con l’eliminazione del divieto assoluto di mangiare carni rosse, che anzi vennero introdotte nella dieta giapponese perché riconosciute come la principale ragione della maggiore corpulenza e prestanza fisica degli occidentali. Durante la ‘modernizzazione ’del paese la yoshoku era però prevalentemente vista come una cucina di lusso, in quanto la maggior parte degli ingredienti necessari era quasi completamente irreperibile per la gente comune ed il suo costo di conseguenza molto elevato. Nel secondo dopoguerra una maggiore disponibilità di risorse alimentari provenienti dall’estero la resero invece sempre più popolare, ed essa conquistò a poco a poco tutta la popolazione: appositi ristoranti, gli yoshokuya 洋食屋 aprirono un po’ ovunque, e la “contaminazione” occidentale entrò infine anche nelle case giapponesi, consacrandone così definitivamente il successo. Pur se un ramo dello yoshoku rimane molto raffinato, essa comunque è soprattutto una cucina di tipo comune e giornaliero. I piatti yoshoku vengono generalmente scritti in katakana, ovvero con l’alfabeto sillabico utilizzato per i termini di origine straniera; vanno mangiati quindi con le nostre posate, sono accompagnati dal pane e, se dal riso, in questi casi non lo si chiama gohan, alla giapponese, ma raisu (da rice) e scritto in katakana. Per il Giapponese medio rappresenta una sorta di internazionalizzazione positiva dei propri costumi quotidiani, un avvicinamento ad una modalità di vita occidentale spesso percepita come evoluzione e progresso…
Esempi di yoshoku? Ve ne sono un’infinità: si va dal tonkatsu, la cotoletta impanata che si mangia assolutamente accompagnata dal riso ( e che è talmente “nipponica” oramai da ricevere l’onore di essere scritta in hiragana, cioè con l’alfabeto delle parole originali giapponesi), ai korokke, simili alle nostre crocchette di patate ma con aggiunta di carne o pesce al suo interno, al curry giapponese, agli hamburger (hambaagu). Anche la cucina italiana viene ampiamente apprezzata ed interpretata nella yoshoku giapponese in modo totalmente rielaborato. Ad esempio diffusissimi, sia nelle trattorie che anche in confezione preconfezionata nei supermercati, sono i naporitan, i nostri spaghetti saltati in padella con aggiunta di ketchup, cipolla, funghi ed altri ingredienti a scelta. Persino nelle portate di sushi, la tradizione culinaria giapponese per eccellenza, occhieggia qualcosa di “contaminato”: stiamo parlando dei California maki, i rotolini di riso con aggiunta di surimi, avocado e maionese. Ma questi sono solo degli esempi, la lista è ben più lunga e spesso, agli occhi di un Occidentale, non così chiaramente distinguibile da piatti giapponesi più tradizionali. A voi il piacere quindi di scoprire gli altri innumerevoli piatti “esotici”, oramai parte integrante della tradizione culinaria moderna di questo Paese, che non finisce mai di stupirci per la sapienza con cui riesce a mescolare, fondere e reiventare sé stesso continuamente, anche in cucina!
Dicembre in Occidente è sinonimo di Natale, la festa religiosa per antonomasia; il Giappone ne rimane “contaminato” per il suo risvolto puramente commerciale, mentre un discorso a parte merita la celebrazione del Capodanno, di cui l’ultimo mese è il solenne preludio. Infatti in questo ultimo periodo dell’anno qualsiasi attività, facezia, la stessa attitudine emotiva del popolo tutto si predispongono all’attesa. Nella tradizione giapponese l’anno che passa è separato completamente da quello successivo: ogni lavoro, qualsiasi problematica, qualsivoglia cruccio o preoccupazione DEVONO essere lasciati indietro, così che nulla arrivi ad intaccare la “verginità” di quello che nasce. All’uopo si organizzano ovunque i boonenkai (忘年会), ovvero delle feste che “fanno dimenticare l’anno che se ne va”, le case vengono addobbate, pulite e lucidate alla perfezione; in questo modo i primi 3 giorni del nuovo anno saranno dedicati alla calma assoluta, buon auspicio per il nuovo inizio.
La tradizione non ama festeggiamenti chiassosi allo scoccare della mezzanotte; è invece costume visitare i vicini templi buddhisti che rimangono aperti per l’occasione. Si chiama joya no kane (除夜の鐘): a mezzanotte la campana in bronzo del tempio risuonerà per 108 volte; tanti rintocchi quanti sono necessari a mondarsi dei 108 desideri terreni e prepararsi rigenerati all’anno che verrà. La vigilia del Capodanno è quindi un’attesa molto solenne e silenziosa, e la tradizione culinaria si adegua all’occasione. Cosa mangiano i giapponesi nell’attesa del nuovo anno? Il piatto è invero estremamente semplice e per nulla elaborato, si chiama toshikoshi soba (年越しそば), ovvero la “soba per passare all’anno nuovo”. Le ragioni per cui proprio la soba venga mangiata alla vigilia di Capodanno sono ancora una volta simboliche: si pensa che la forma “allungata” di questi spaghetti porti fortuna, felicità e soprattutto lunga vita; inoltre si dice che proprio perché essi possono spezzarsi facilmente, così altrettanto facilmente ci si può disfare dei problemi e dei dolori dell’anno che ci lascia. Pare ci sia anche anche un’altra ragione, questa volta storica, alla base della considerazione della soba come portafortuna: nel periodo Edo gli orafi raccoglievano le scaglie d’oro e d’ argento che si depositavano un po’ dappertutto nelle loro officine dopo il lavoro con l ‘ausilio di palline di soba, che poi venivano passate a fuoco perché i metalli preziosi fondessero nuovamente.
Ad ogni modo l’esecuzione di questo piatto a base di spaghetti di grano saraceno è molto semplice per un significato davvero profondo. Come si prepara? Niente di più facile: si porta ad ebollizione l’immancabile dashi assieme a due cucchiai da minestra di salsa di soia (il sapore da ottenere deve essere piuttosto deciso), un po’ di zucchero ed un pizzico di sale. La soba viene cotta a parte in acqua non salata e quindi messa nelle ciotole a fine cottura…. poi si versa il brodo. Ultima aggiunta, dei cipollotti tagliati fini. Una variante particolarmente gustosa e “suggestiva” è detta tsukimi (月見), letteralmente “guardare la luna”, perchè al tutto si aggiunge un uovo crudo che ricorda proprio la luna piena….gusto e poesia in un piatto solo! よいお年を (Yoi o toshi wo)….e, aspettando l’anno nuovo, i nostri migliori auguri!
Tonno, pagello, salmone, anguilla, polpo, sgombro, gamberi, merluzzo, sino al temibile fugu, o pesce palla: i giapponesi in cucina mangiano qualsiasi tipo di pesce, ed anzi, ne valorizzano una specie piuttosto che un’altra a seconda delle stagioni. Lo mangiano crudo, bollito, fritto, grigliato: il pesce non fa parte semplicemente della cucina giapponese, E’ la cucina giapponese. Il Giappone, con la sua particolare conformazione geografica e la sua composizione in 4 isole principali e migliaia di piccole isolette, ha naturalmente sviluppato sin dalle origini una cultura economica basata quasi esclusivamente sulla pesca. Il mare che lo bagna è innanzitutto molto pescoso, e ciò lo si deve a due particolari correnti marine, una calda meridionale, Kuroshio, ed una fredda settentrionale, Oyashio. Questi fattori climatici ed ambientali assai favorevoli, uniti alla impossibilità geografica di poter sostenere un’economia alimentare basata su allevamenti intensivi, hanno dato all’attività ittica nipponica e alla sua conseguente gastronomia l’impulso principale. Ulteriore stimolo alla cultura culinaria basata sulla pesca fu dato poi a partire dal VII secolo dal Buddhismo, introdotto dalla Cina. La filosofia alimentare buddista, diffusasi prevalentemente tra gli esponenti dell’aristocrazia e dei guerrieri, ridusse tra questi, fin quasi ad azzerarlo completamente, il consumo già esiguo di carne, partendo dall’assunto che fosse violenza uccidere un animale. L’utilizzo a scopi alimentari di bovini, cavalli, cani, scimmie e polli venne progressivamente ridotto, fino ad essere proibito dall’ imperatore Tenmu nel 675.Nei secoli successivi, in particolare a partire dall’Epoca Heian, precisamente nel regolamento del 927, veniva dichiarato che tutti i membri dell’aristocrazia che avessero mangiato carne sarebbero rimasti impuri e sarebbe stato loro proibito di partecipare ai riti shintoisti presso la corte imperiale. Proprio in questo periodo inoltre la classe aristocratica, trasferita la capitale imperiale a Kyoto, cominciò a sviluppare un gusto raffinato proprio, indipendente dall’influenza cinese, scoprendo e creando così una cucina giapponese dai sapori e dai gusti del tutto originali.Infatti l’antesignano del sushi nasce allora, e fu chiamato narezushi: consisteva nel conservare il pesce sotto il riso per un lungo periodo, addirittura 12 mesi, per permettere all’acido lattico prodotto dal cereale di dare al pesce un suo tipico sapore agrodolce. Intorno al XV secolo si comincerà a mangiare quello stesso riso insieme al pesce, ma bisognerà attendere il XIX secolo prima che il sushi che noi conosciamo faccia il suo definitivo ingresso sulle tavole nipponiche.
Fu invece dai Portoghesi che i Giapponesi appresero l’arte della frittura che dava al pesce quella patina croccante e leggera insieme, noto oramai universalmente come tenpura. La parola stessa sembra derivi dal portoghese “tempora”, ovvero i periodi in cui per motivi religiosi si era costretti a mangiare di magro, dunque pesce al posto di carne.Giungendo al XIX secolo, il consumo di carne ritrovò un forte impulso dovuto alla riapertura definitiva all’Occidente mentre, in particolare dal secondo dopoguerra, l’ingresso in Giappone attraverso gli Americani di sapori, gusti, ingredienti e sistemi di cottura e conservazione dei cibi moderni (come i surgelati e i vari liofilizzati) rivoluzioneranno le tradizionali tecniche culinarie, facendo però inorridire i puristi della cucina giapponese. E’ pur vero che i Giapponesi però, pur rimanendo attenti alle novità provenienti dal mondo esterno, seppero adattare piatti e sapori diversi al loro gusto, e non contravvennero mai alla propria natura di profondi conservatori delle loro tradizioni gastronomiche. E’ proprio appunto in nome di quella tradizione che il pesce cucinato alla maniera giapponese, rimane, nelle sue innumerevoli ricette, il piatto principe e l’ingrediente insostituibile della cucina del Sol Levante. Curiosità: i maggiori consumatori di pesce in Giappone sono gli abitanti di Okinawa, arcipelago delle Ryukyu, tra l’Oceano Pacifico ed il Mar della Cina. Questa abitudine, assieme ad altri fattori ambientali e caratteriali, pare essere, secondo accreditati scienziati e nutrizionisti, l’elemento basilare delle loro eccezionale longevità: media di vita 81,2 anni, la più alta del mondo. Già nota nelle antiche leggende cinesi come “la terra degli immortali”, Okinawa conta inoltre il numero di centenari ed ultracentenari più elevato del pianeta!
L’Italia in questi giorni è assediata dal gelo. La situazione ha un indubbio fascino, nonostante i disagi pratici che causa a vari livelli. Tra i lati positivi la bellezza di certi panorami, la sensazione di pulizia dell’aria, la giocosità che anche gli adulti ritrovano in piccoli gesti infantili come tirare una palla di neve o scrivere su un finestrino ghiacciato. E naturalmente il piacere di sorbirsi una bella zuppa calda…
Chi conosce la cucina giapponese sa che “non si vive di solo sushi” ma che la tradizione è ricca di piatti invernali particolarmente saporiti e confortanti. I ristoranti dell’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi, come sempre in linea con la stagione, propongono sia nei menù che come “piatti del giorno” diverse specialità di questo tipo.
Chi ha voglia di concedersi una pausa giapponese da questo freddo febbraio non ha che da approfittare: nabè (vari ingredienti cotti in un brodo che può stare anche su un fornello al centro del tavolo), oden (stufato di ingredienti misti, servito nel suo brodo) e ramen (spaghettini serviti in brodo con vari aromi) i piatti più rappresentativi della cucina giapponese per climi rigidi, ma ogni ristorante propone in questi giorni anche le golose specialità che lo chef ha pensato per riscaldare e coccolare i clienti infreddoliti. Conviene approfittarne…
La cucina giapponese poggia essenzialmente su princìpi alimentari semplici e basilari e su piatti poco elaborati in termini di gusto e sapori: pochi intingoli, niente “pasticci” o ripieni complicati; in una parola essa è sappari, ovvero leggera, pulita, semplice: quasi una “cucina povera”. Basata infatti principalmente sui prodotti della terra e del mare utilizza tutto, ma proprio tutto di ciò che pesca o coltiva, anche ciò che in altre tradizioni gastronomiche viene scartato. Questo mese esploriamo ciò che il mare produce ovunque in quantità ma che solo pochissimi popoli, perlopiù costieri e comunque limitatamente a pochissime regioni, utilizzano come alimenti: stiamo parlando delle alghe. In Occidente le alghe sono da tempo conosciute nella talassoterapia per i loro effetti benefici ma fino a poco tempo fa poche regioni, ad esempio in Italia Liguria, Campania, Alto Adriatico, Sicilia e Sardegna, ne facevano uso in cucina. Dobbiamo perciò alla diffusione dei ristoranti giapponesi il merito di aver portato questi vegetali marini sulle nostre tavole. Le loro qualità nutrizionali sono molteplici: ricche infatti di antiossidanti, di fibre e proteine, se assunte anche in piccole quantità tutti i giorni, apportano sostanze nutritive fondamentali per l’organismo. I sali minerali (calcio, iodio, ferro) e le vitamine (betacarotene, vitamine B,C,E) migliorano inoltre la resistenza alla fatica: insomma le alghe sono dei grandi ed efficaci ricostituenti naturali, e combattono malattie e malesseri quali anemia ed astenia…inoltre contengono pochissime calorie, ideali quindi nei regimi dietetici ipocalorici. Ma andiamo a conoscerle meglio:
Alga nori: il termine in origine si rifaceva alle alghe in senso generico; si parla di alga “nori” sin dall’VIII secolo, quando nel codice legislativo Taiho del 701 veniva citato come materiale per il pagamento delle tasse. Intorno al X secolo cenni sull’alga “nori” in letteratura fanno comprendere che questa aveva fatto finalmente la sua apparizione tra gli alimenti comuni.Le alghe nori vengono prodotte attraverso un sistema molto avanzato di idrocultura. Esse vengono coltivate in mare attaccate a delle reti sospese sulla superficie dell’acqua, tecnica questa che permette ai contadini di continuare a svolgere il proprio lavoro dalle imbarcazioni. La crescita richiede circa 45 giorni, ed ogni singola semina può portare anche a raccolti multipli.La lavorazione del prodotto grezzo avviene attraverso macchinari altamente specializzati che hanno perfettamente riprodotto, automatizzandolo, le fasi di lavorazione manuale: infatti l’alga nori, originariamente prodotta sotto forma di pasta molle, oggi è venduta essiccata in fogli rettangolari (metodo di produzione inventato nel quartiere di Asakusa quando Tokyo si chiamava ancora Edo). Comunemente usata come involucro per il sushi e gli onigiri, aromatizza anche pasta e zuppe. Grazie al suo contenuto di provitamina A, aiuta la ricrescita di unghie e capelli, e facilita la riduzione dei grassi e del colesterolo. Fonte naturale di iodio, aiuta la funzionalità tiroidea. Unico accorgimento a non abusarne per coloro che seguono diete a basso contenuto di sodio o a chi soffre di ipertensione o disturbi renali.
Alga wakame: originaria anch’essa dei mari giapponesi, sin dagli anni ’80 viene però coltivata pure sulle coste settentrionali della Francia, in Bretagna, in seguito al suo sempre più frequente utilizzo nella cosmesi.Nasce e cresce in acque agitate e turbolente e viene raccolta in primavera, quando i pescatori in barca, muniti di rastrello, staccano completamente la radice delle piante dalla sua roccia. Essa viene poi imballata dopo l’essiccazione: così essiccata può essere esportata, mentre per essere venduta fresca sui mercati nazionali, viene leggermente scottata (questo per prevenire la formazione di dannosi microbatteri). Si mangia soprattutto nelle insalate: la wakame saraada è uno degli antipasti più semplici e gustosi dei menu giapponesi.
Alga kombu: se ne trovano più di cento tipologie differenti in Giappone, ma il centro più importante in assoluto per la produzione di alghe kombu è la città di Osaka. La qualità migliore è la Hidaka-kombu, dal nome della località produttrice. Qui le alghe crescono in vere e proprie “foreste sottomarine” dove raggiungono anche un’altezza di 10 metri. In estate vengono raccolte, appena terminato il loro ciclo di maturazione, con l’ausilio di lame affilatissime, e poi lasciate sugli scogli ad essiccare per qualche settimana. L’alga kombu si aggiunge tradizionalmente al brodo dashi ma si può anche sgranocchiare, leggermente salata, in bastoncini.
Alga hijiki: cresce in profondità maggiori rispetto alle altre alghe ed i suoi poteri rigeneranti sono eccezionali. Le sue piante a cespuglio vengono raccolte tra gennaio e maggio, quindi fatte bollire a lungo per renderle tenere e quindi fatte essiccare.Prima di cuocerla, l’alga hijiki va fatta nuovamente ammorbidire, e, poiché lega molto bene con l’olio, si mangia di solito saltata in padella unita ad altri vegetali, come carote o cipolle.
Alga agar agar o kanten (寒天): l’alga kanten è un’alga rossa polisaccaride usata come addensante naturale, ha un alto contenuto di mucillagini e contiene una sostanza, detta carrogenina, ricca di sali minerali, che è praticamente una gelatina. E’ usata in cucina nell’arcipelago del Sol Levante da circa 350 anni ed è conosciuta con il nome di kanten, che significa “clima freddo”. Narra una leggenda infatti che nel 1658 un locandiere, Tarazaemon Minoya, avesse preparato un dessert a base di alghe per i suoi ospiti e che avesse gettato via poi quello avanzato. Il freddo notturno lo congelò, ma il sole del mattino lo sciolse nuovamente, per poi quindi seccarlo di nuovo. Minoya raccolse il residuo, lo bollì nuovamente e, quando il composto gelatinoso si fu raffreddato, si rese conto, assaggiandolo, che era di qualità nettamente superiore al precedente. In una notte Minoya aveva scoperto così la tecnica che poi si sarebbe sviluppata a livello industriale nella produzione dell’agar, previo quindi congelamento e successiva essiccazione. L’agar ha la peculiarità tutta sua di essere insolubile a freddo, ma di sciogliersi nell’acqua in ebollizione: la gelatina che se ne ricava, a differenza dell’amido, è termoreversibile, ed inoltre a differenza della comune colla di pesce, resiste alle alte temperature, così da poterla utilizzare, allo stato solido in cubetti, anche nei piatti caldi. Lo yokan, un dolce giapponese a base di fagioli di soia e spesso aromatizzato al tè verde oppure alle castagne, è un esempio di alimento reso solido dalla consistenza gelatinosa dell’alga kanten (l’aspetto è simile alle nostre cotognate, ma meno zuccherine: se ne consiglia vivamente l’assaggio!)
E PER FINIRE… Parafrasando un detto nostrano secondo cui del “maiale non si butta via niente”, in Giappone del pesce, alimento per antonomasia della sua cucina, non viene sprecato nulla. Ed ecco che spesso, accompagnato da una bella birra ghiacciata, si può gustare come aperitivo, un ottimo hone senbei, snack croccante che si prepara con le lische di pesce. Quando arrostiamo o friggiamo il pesce mai infatti buttare via la lisca, la testa, o la pelle: queste possono essere arrostite a parte e, ricche come sono di calcio e fosforo, diventare particolarmente consigliate ed appetibili per i più anziani e per i bambini. Così preparate se ne trovano anche in vendita in Giappone, naturalmente: la consistenza è però, come ovvio, differente a seconda del tipo di pesce, quindi quella dell’anguilla risulterà particolarmente dura alla masticazione, a differenza di quella del dentice, più morbida, attenzione quindi, nella scelta, onde non danneggiare una dentatura maggiormente fragile… Buon appetito!