IL SHOCHU, BEVANDA CHIC CHE FA FURORE

Che ne direste se vi invitassimo in una shochulounge o in un shochubar?
Forse in Italia non tutti sanno che accanto ai sakebar sono sempre più diffusi e stanno spopolando non solo in Giappone, ma anche in molte città degli Stati Uniti ed a Londra, i locali dove si degusta il shochu, la bevanda alcolica appartenente alla tradizione, che ha ormai superato in termini di consumo e gradimento il sake, da sempre considerato il signore degli alcolici.
Il fenomeno è davvero interessante, visto che fino ad una ventina di anni fa il shochu rappresentava il “cicchetto” degli anziani o dei lavoratori facenti parte delle sfere meno agiate.
Lo scenario è negli ultimi anni sensazionalmente cambiato: dai rumorosi pubs ai locali chic.
Non stupitevi dunque se al banco di uno di questi locali vi imbatterete in giovani donne impeccabilmente eleganti, che nel vostro immaginario ordinerebbero solo champagne, mentre sorseggiano proprio un bicchiere di shochu!
Ora ristoranti di stile sfoggiano la loro vasta selezione di shochu e soprattutto negli Stati Uniti troviamo persone disposte a pagare centinaia di dollari nelle aste web per assicurarsi le produzioni limitate.

L’onda del successo

All’inizio, prima del boom, veramente in pochi credevano che potesse raggiungere questo successo.
Il Shochu, pur appartenendo ad un centenaria tradizione giapponese non godeva infatti di grande fama. In Occidente, dove tutti conoscono il Sakè per averlo assaggiato, o quantomeno di nome, era sconosciuto ai più. Attualmente in Giappone, ma il fenomeno risale già al 2003, il Shochu ha imprevedibilmente superato nelle vendite proprio questa ben più celebre bevanda. Si può dire che anche grazie ad una operazione di “restyling” della sua immagine, ha conquistato una grande popolarità, diventando un vero e proprio fenomeno di tendenza.

Come viene prodotto…

Diversamente dal Saké che è prodotto mediante fermentazione, il Shochu è un distillato.
Può essere ottenuto dalla distillazione dell’orzo (Mugi), delle patate dolci (Imo), del riso (Kome), della canna da zucchero (Kokuto), del grano saraceno (Soba) ed ogni varietà conserva il gusto degli ingredienti d’origine, selezionati con cura. Ci sono sicuramente diverse ragioni che spiegano questo meritato successo. E’ certo che uno dei suoi punti di forza e distinzione, al di là delle strategie di marketing e dei fenomeni di costume, è proprio la versatilità e la capacità di evidenziare i suoi aromi primari. La singola distillazione ne preserva l’aroma, a differenza della doppia distillazione di prodotti come la vodka, a cui sono spesso aggiunti aromi dopo tale processo. Altri ingredienti utilizzati, il sesamo, le patate e le carote, il riso Thai.
Si annoverano tra i vari tipi anche il Kasutori Shochu che è prodotto con i fondi della fermentazione del Saké ed una varietà di Awamori in cui viene utilizzato il riso Thai.
Ben si comprende che con più di 3000 varietà oggi a disposizione – alcuni produttori si sono sbizzarriti lanciando sul mercato Shochu di latte, zucca, pepe verde o castagna – la bevanda attrae e soddisfa i palati più esigenti e “curiosi”. Insomma…ci sembra facile sentire profumo di successo anche in Occidente…o meglio, aroma del successo!

Un po’ di storia… sulla via del Shoshu

L’origine della bevanda non è certa.
Si pensa possa essere giunto o a Kyushu attraverso la Thailandia e Okinawa attraverso, o nell’isola di Iki dalla Corea dove era arrivato per mezzo dei Mongoli, i quali avevano a loro volta acquisito il processo di distillazione dalla Persia. Ad Okinawa il distillato è conosciuto con il nome di “Awamori”. In base alla documentazione storica in nostro possesso, il Shochu avrebbe fatto il suo ingresso quantomeno nel sedicesimo secolo. Vale la pena citare quanto scrive il missionario Francis Xavier che visitò la Prefettura di Kagoshima nel 1549. Egli racconta di una bevanda prodotta con il riso e di non aver visto alcun “ubriacone”, ciò perchè coloro ne bevevano in quantità finivano con il crollare immediatamente addormentati.

L’alcool fa la differenza… ed anche le calorie!

In Giappone, la maggioranza dei Shochu contiene il 25% di alcool, ma se ne trovano anche alcuni al 35 e al 40%.
Di norma la gradazione alcoolica è pertanto inferiore a quella della vodka, cui viene a volte impropriamente paragonato. Merita un cenno l’aspetto delle calorie. Lo Shochu apporta infatti un ridotto contenuto calorico, non contiene infatti né zucchero né sostanze adulteranti. Due porzioni da 30 ml forniscono circa 35 calorie. Ecco perché viene apprezzata anche dai più attenti alla forma fisica…

E la salute?

Il fatto che sia una bevanda a basso contenuto calorico è già un dato confortante per la nostra linea.
Ma c’è di più… Vi è infatti chi sostiene che sia, ben si intende in piccole quantità, un toccasana proprio per la nostra salute. Alcune ricerche condotte al Miyazaki Medical College hanno dimostrato che il Shochu contiene un enzima particolarmente efficace al fine di evitare le trombosi. Questo dato ha senz’altro esercitato un suggestivo richiamo nei confronti dei più attenti alla salute. Ma al di là dei risultati delle ricerche, una nota di colore ha contribuito ad accrescere la fama della bevanda…ed è il fatto che possa vantare un assai longevo quanto fervido ammiratore…. Entrato nel guinness dei primati, il signor Shigechiyo Izumi, un cittadino giapponese che ha orgogliosamente compiuto 120 anni dichiara una sviscerata passione per il shochu. Ed ecco che spuntano teorie sulla longevità…
Un ultimo cenno merita la diffusa opinione che questo tanto amato liquore non causi alcuna sindrome da dopo-sbornia…non sta a noi dire provare per credere…

Gustarlo

Ancora una volta la versatilità si mette in luce come la quintessenza della bevanda. Il Shochu si può gustare liscio o con ghiaccio. Diluito con acqua fredda o calda, mischiato con te oolong o succhi di frutta, o con l’aggiunta di limone, pompelmo, mela o ume.
Risulta quindi adatto a tutte le stagioni ed in virtù della gradazione alcolica non troppo elevata può essere gustato come bevanda da pasto.
Non solo, ma sono proprio le molteplici sfumature che ne caratterizzano i vari tipi a renderlo un perfetto complemento per diversi piatti e diverse cucine.
Come cocktail, nelle sue mille creative versioni, scandisce la vita notturna nei locali alla moda.

Il preferito dalle donne

Ciò che rende davvero unico il boom del Shochu e lo connota come fenomeno di costume è che sono le donne, soprattutto le giovani, a rappresentare la maggioranza della schiera di estimatori.
Risulta infatti che il 60% dei consumatori sono donne tra i 25 ed i 30 anni, senza dubbio le protagoniste nel tracciare lo scenario della moda, dello stile e del costume.

Anche l’occhio vuole la sua parte

Sì, perché ancora una volta l’estetica giapponese si esprime e si distingue nella raffinatezza e ricercatezza del design delle bottiglie dei vari produttori.
…A questo punto… non ci resta che sollevare i bicchieri e brindare! …ma ci raccomandiamo, sempre con moderazione…!

Marcella Bagnoli

Foto in copertina di Christophe Richard su Flickr used under CC

SAKE’ OTOSO’

OTOSO (Sake per cerimonia augurale)

La mattina del 1 gennaio, giorno di Capodanno, la famiglia tipica giapponese si alza, si inginocchia e prega dinanzi all’altarino shintoista o buddista di casa; quindi si siede a tavola e comincia a sorseggiare una tazza di otoso sake.
Come vuole la tradizione, l’ otoso sake viene bevuto per scacciare via ogni negatività dalla propria casa e per assicurare lunga vita a tutti i presenti. Infatti la parola stessa viene scritta utilizzando i caratteri 屠蘇 che significano rispettivamente “sconfiggere” e “spiriti maligni”.
Il detto in uso dice “se una persona ne beve, nessun membro della sua famiglia si ammalerà, se tutta la famiglia ne beve, nessuno nel villaggio si ammalerà”.
L’usanza di bere l’ otoso sake cominciò in Cina sotto la dinastia T’ang (618-907), e venne poi adottata nel Giappone dell’epoca Heian (794-1185) esclusivamente dal ceto aristocratico.

Poiché l’ otoso è un composto di sake unito e mescolato ad erbe medicinali, successivamente il suo utilizzo divenne di uso comune; ancora fino a pochi decenni fa esisteva l’usanza per i farmacisti di regalarne piccole quantità ai propri clienti in occasione dei festeggiamenti del Capodanno. Tradizione vuole ancora che l’ otoso venga servito in tre tazzine di differenti dimensioni, chiamate “sakazuki”: si comincia con la più piccola, che si passa tra tutti i membri della famiglia per un sorso.
L’usanza varia da regione a regione, ma generalmente il più giovane inaugura la bevuta, per poi passare la tazza via via fino al più anziano. Questo fatto pure probabilmente ebbe origine in Cina, laddove i giovani lo assaggiavano per primi per controllarne una eventuale ed eccessiva tossicità, e solo successivamente lo passavano ai più anziani. In Giappone però, tranne che nelle occasioni davvero formali, è il capofamiglia che comincia a sorseggiarlo.
L’ otoso sake può anche essere preparato in casa: in Giappone infatti si vendono appositamente delle confezioni in bustine. La sera della vigilia di Capodanno se ne lascia macerare una in 300 ml di sake o di mirin per circa otto ore. Al mattino l’infuso alcolico sarà pronto per essere servito a colazione per un sorso e poi per il pranzo tradizionale di Capodanno a base di oseci.
E come vuole la tradizione, si brinda tutti insieme attorno al tavolo.

KANPAI!! (SALUTE)

Loredana Marmorale

Foto di copertina di Midorisyu su Flickr used under CC

SAKE: IL GUSTO DELLA STORIA GIAPPONESE

Il sake nasce dalla lavorazione del riso grazie a un sofisticato processo produttivo di origini antichissime e unico nel suo genere, che dà luogo a una straordinaria e inconfondibile complessità di profumi e aromi.
E’ la bevanda fermentata che contiene la maggiore quantità di alcool al mondo ma è anche la più ricca di vari fattori nutritivi fra cui zuccheri, amminoacidi, acidi organici, vitamine.
Un vero tesoro nazionale.

Ricchezza..

Il sake è per i Giapponesi come il vino per gli Italiani. Esso accompagna la loro vita nei momenti più importanti, tutte le cerimonie religiose e gli eventi civili vengono suggellati bevendo un bicchiere di sake: il raggiungimento della maggiore età, il matrimonio (con il rito “san san kudo”), una vittoria elettorale, un successo aziendale, la vittoria di un torneo di sumo, un funerale…
Oggi esistono tante varietà di sake in Giappone quante di vino in Italia: la quantità prodotta e consumata si è ridotta ma la qualità si è elevata. Così il sake che giunge sulle tavole europee oggi è il meglio che si possa desiderare.
In una goccia di sake è contenuto il ricco frutto di secoli di storia e cultura straordinaria.

…E purezza

Al contrario del vino, il sake non contiene conservanti e, nel caso dei sake di qualità, nemmeno altri additivi. Per questo può collegarsi a questa preziosa bevanda un concetto: quello di purezza.
E purezza è data dalla raffinazione dell’ingrediente essenziale: il riso.
Il riso utilizzato per il sake (sakamai) è diverso da quello che si usa in cucina: ha un chicco più grande, in cui si concentrano in abbondanza amidi. Le varietà più utilizzate sono circa una decina.
Il grado di raffinazione, seimaibuai, è espresso attraverso la percentuale del chicco che viene utilizzata. Se il seimaibuai è almeno il 70% del peso totale del chicco e si è seguito un particolare disciplinare di produzione, al sake può essere attribuita una denominazione di qualità.

Il sake con queste caratteristiche di purezza ha aromi delicati ed eleganti.
La denominazione di qualità, a differenza di quella utilizzata in Italia per il vino, non è legata al territorio di provenienza: le zone più famose per il sake si trovano a nord di Tokyo, ma i produttori possono sperimentare e selezionare le materie prime migliori di ogni provincia così da ottenere un prodotto unico.
Un altro elemento importante è l’acqua: l’acqua considerata migliore o comunque più nota è quella ricca di fosforo e potassio, con una piccola quantità di magnesio e calcio, della sorgente Miyamizu vicino a Kobe.
La lavorazione, molto complessa, si basa sulla fermentazione di acqua, riso, spore del fungo Aspergillus orza, acido lattico e lieviti e dà luogo contemporaneamente alla saccarificazione e alla fermentazione.
Ciò permette al sake di ottenere un grado alcolico elevato: generalmente, il sake in vendita presenta una gradazione tra il 15% e il 16%.

Assaporare il Sake

Quando viene venduto, il sake è già al massimo della sua parabola qualitativa e va consumato al più presto per godere della sua freschezza: esso mantiene perfettamente integre le sue qualità per un periodo di un anno dalla produzione, sempre che sia conservato nel modo corretto (lontano dalla luce e alla temperatura massima di 20°).
Il sake va tradizionalmente servito e degustato in una piccola coppa di ceramica (tokkuri) e può essere bevuto a varie temperature: ad ognuna di esse, la bevanda assumerà un aroma e un gusto diverso.
Esistono inoltre sake più aromatici con sentori fruttati.
La valutazione del sake, come quella del vino, è basata sull’osservazione degli elementi visivi, olfattivi oltre che di gusto; un vantaggio, rispetto al vino, è che il sake è molto facile da abbinare ai cibi, anzi ne esalta i sapori: come disse un sommelier giapponese, vino e cibo sono due mani con le dita bene aperte che si incastrano fra loro solo quando l’abbinamento funziona, mentre sake e cibo sono una mano aperta che va ad avvolgere una mano chiusa a pugno.

Delle varietà di sake, delle occasioni e delle ritualità ad esso legate, dei modi di berlo e degli abbinamenti ideali avremo modo di parlare nei prossimi appuntamenti mensili.

Ma ora….brindiamo!

Federica Cecconi

BERE IL SAKE

Bere il sake è un’esperienza che va fatta almeno una volta…ma può essere vissuta molteplici volte scoprendo profumi e sapori sempre diversi!
Esistono infatti vari tipi di sake, mutevoli al palato, che danno il loro meglio a temperature differenti e con abbinamenti di cibi i più particolari.

I tre livelli di temperatura per il sake caldo sono 35°C, 45°C e 55°C anche se il più diffuso è l’“hitohada” (livello pari alla temperatura corporea). Il modo migliore per scaldare il sake è di porlo nel Tokkuri (tradizionale contenitore in ceramica) e immergere questo nell’acqua che si andrà a scaldare: successivamente si verserà nelle coppette denominate “sakazuki” o “choko”.

Questa cultura della ritualità si manifesta particolarmente in antiche cerimonie come la “Kagami Biraki” o la “San-san-ku-do” in cui il sake è protagonista: la Kagami Biraki risale a circa 300 anni fa come cerimonia beneaugurante per una vittoriosa battaglia ed ora vive nel rito di apertura delle botti di sake durante le inaugurazioni di occasioni speciali o sacre.
La San-san-ku-do (letteralmente tre-tre-nove) è invece un rito propiziatorio che si tiene durante i matrimoni Shinto e vede gli sposi intenti in tre assaggi di sake da coppe di diverse dimensioni (un tempo decorate con raffinate immagini rappresentanti il cielo, la terra e l’umanità): il numero tre è di ottimo auspicio in Giappone.

E come non può essere di buon auspicio il sake, una bevanda dalle mille sfumature e il cui bouquet è frutto di secoli di tradizione!

Federica Cecconi

UNA TRADIZIONE SORPRENDENTE: SAKE, LEGNO E…

Un modo antico e al tempo stesso inedito di provare il sake è di berlo dal masu. Il masu è una piccola scatola di legno (viene adoperato il legno di sugi, chiamato volgarmente cedro giapponese, o hinoki, una varietà di cipresso) a base quadrata: originariamente utilizzata come misura di una porzione di riso (la misura standard è di 180 millilitri), venne usata dai produttori di sake per primi come bicchiere per assaggiare i risultati del proprio lavoro e, prodotta con un materiale facilmente reperibile ed economico, si diffuse presto nei sake bar.
Per gli intenditori di oggi forse è preferibile degustare il sake nel vetro scoprendone così in purezza i vari sentori, più fruttati e floreali e meno legnosi di un’epoca in cui il sake veniva lavorato e conservato in recipienti anch’essi in legno; come pure i giapponesi di oggi senz’altro preferiranno la comodità di sorbire il sake dal bicchiere…ma la tradizione del masu non è scomparsa!

Ci si può addirittura imbattere in una sorta di compromesso fra antichi usi e abitudini moderne, per cui il sake viene servito in un bicchiere a sua volta collocato nel masu. Il bicchiere, in segno di ospitalità e accoglienza, viene riempito fino a che il sake non debordi e vada a riempire anche il masu. Si berrà allora tutto il contenuto del bicchiere come pure del masu: quest’ultimo rilascerà per i palati più attenti note di legno.
Esistono poi masu laccati che permettono di concedersi il piacere di assaporare i bouquet dei moderni sake in una scatola che non rilasci profumi, richiamando nell’estetica i tempi andati.

…Sale!

Ma la tradizione vuole che si beva direttamente dal masu e…non abbiamo ancora menzionato un altro protagonista di questo modo di bere il sake…con il sale!
Va posta una presa di sale su un angolo del masu, o meglio giusto accanto ad un angolo, stando bene attenti che il sale non cada nel sake.
E’ un’usanza molto particolare e curiosa: essa ha una valenza simbolica in quanto il sale in Giappone veniva spesso utilizzato nei rituali di purificazione ed è da sempre considerato di buon auspicio. Inoltre il sake un tempo era molto più dolce di oggi e risultava naturale accompagnarlo con alimenti base come il miso o il sale.
Quando si porta alla bocca il masu, il sale tocca solo i lati delle labbra e il gusto predominante rimane quello del sake mentre il sale fa da gradevole contorno. Questo abbinamento stuzzica l’appetito e con l’appetito la voglia di bere….insomma, vale senz’altro la pena assaporare questa esperienza con il sale!

Il taru-zake

Nel masu si serve solitamente un tipico sake barriqato: il “Taru-zake”. Esso è prodotto lasciando riposare il sake due giorni in un contenitore (“taru”) di legno, che gli conferisce un affascinante aroma di legno e resina…aroma che viene esaltato dal sale e dal profumo intenso del masu stesso.
La tendenza a consumare questo tipo di bevanda si sta diffondendo molto, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, in particolare nella avanguardistica New York: il taru-zake è apprezzato da molti soprattutto perché può essere abbinato gradevolmente ad ogni varietà di cibo.
In Giappone viene invece consumato specialmente in occasione dei festeggiamenti per il nuovo anno: fra dicembre e gennaio nelle vetrine è facile vedere in bella mostra contenitori e bottiglie di varie dimensioni di questo sake dal profumo intenso come la terra del Giappone e i suoi elementi.

Federica Cecconi

I MILLE GUSTI DEL TE’

Dalle foglie del tè si ricava una bevanda ottima e ricchissima: molti sono i benefici che apporta, molte le varietà della sua pianta ed i tipi di tè che se ne traggono.
Al tè si riconoscono infatti proprietà toniche, dimagranti, antiossidanti e diuretiche; esso fornisce fluoro all’organismo ed ha azioni positive sull’apparato cardiovascolare.
I monaci buddhisti erano a conoscenza del grande valore di questa bevanda (si narra che fu il monaco Dengyo Daishi a portare il tè in Giappone) e preparavano infusi con foglie di tè per favorire la concentrazione durante le ore di meditazione. Alla sua pianta si attribuivano già nel IX secolo importanti proprietà terapeutiche quali quella di offrire sollievo alla fatica, allietare l’animo, rafforzare la volontà e guarire problemi di vista. Talvolta le sue foglie venivano somministrate per uso esterno, sotto forma di impacchi, per alleviare i dolori di origine reumatica.
Un elisir di lunga vita insomma. Soprattutto in Giappone, dove viene coltivato solo tè verde (varietà particolarmente ricca di principi attivi) e dove (maggiormente nelle zone di Uji, Shizuoka, Kagoshima, Nara, Fukuoka, Saitama, Nishio) è possibile ammirarne le coltivazioni organizzate in filari di cespugli disposti uno vicino all’altro a formare lunghe e suggestive onde verdi.

Il tè verde ha generalmente un sapore erbaceo che si abbina bene a molti cibi (verdure, cibi salati leggeri, cibi piccanti, formaggi saporiti, grano saraceno, pesce e ovviamente riso) ma esistono molteplici qualità di tè verde: dal più comune Bancha (infuso giallo limpido dal basso contenuto di teina, ottimo puro con dolci alle mandorle o a base di cioccolato) al raffinato Gyokuro (giallo chiaro, poco tanninico, ideale con pesce crudo e crostacei), dal leggero Hojicha (bruno perché ottenuto da foglie tostate, dal delicato sapore di noci) al Kokeicha, allo Yanagicha, al Kukicha e Tamaryokucha…fino all’antico Matcha e al famoso Sencha, che dà il nome a un fondamentale metodo di preparazione del tè.
Queste ultime due qualità di tè verde sono ricche di storia.
Il tè Matcha fa parte dei cosiddetti “tè d’ombra”, ovvero quei tè che i coltivatori giapponesi coltivano nell’oscurità (metodo ‘kabuse’): le foglie vengono essiccate e poi schiacciate con uno stampo di pietra fino a ridurle in una polvere finissima. Il tè Matcha è il tè utilizzato nella Cerimonia del Tè (Cha no yu): nella cerimonia del tè denso (“koicha”) viene utilizzato un tè proveniente dalle foglie più giovani delle piante di tè più vecchie della piantagione, mentre nella cerimonia del tè leggero (“usucha”) viene utilizzato un tè proveniente dalle foglie più vecchie delle piante più giovani, risultando al gusto leggermente più amaro del tè denso. La polvere per il tè denso può essere usata per preparare il tè leggero ma non viceversa. Per il tè leggero viene usata in proporzione il doppio dell’acqua utilizzata per la preparazione del tè denso, che risulta quindi più pastoso.

Il tè Sencha è invece il tè più prodotto e consumato in Giappone, con 3-4 raccolti l’anno principalmente in estate. Le sue foglie, dal colore verde brillante, subiscono una particolare lavorazione a vapore che ne stabilizza aroma, colore e contenuto chimico e ne evita l’ossidazione. Una volta asciugate e pressate le foglie vengono arrotolate e assumono la caratteristica forma di aghi sottili. Il tè offre un colore limpido e chiaro; l’aroma è fresco e pungente, il gusto è deciso e dolce. E’ un tè da gustare in ogni momento, anche come digestivo, poiché contiene poca teina: è ottimo con piatti a base di pesce, sushi, sashimi ma anche con dolci contenenti amido di riso e fagioli atzuki o preparazioni salate a base di alghe e salsa di soia.
Per preparare il tè secondo il metodo Sencha (alternativa meno formale alla Cerimonia del tè introdotta nel XVIII secolo) si usano un bollitore in ghisa, una teiera solitamente con manico (“Arare”) e tazze senza manico. La preparazione prevede varie fasi:

  • Si porta ad ebollizione l’acqua.
  • Si versa l’acqua nella teiera e si attende per una trentina di secondi.
  • Si distribuisce l’acqua nelle tazze mentre si getta la rimanenza.
  • Si mettono le foglie di tè nella teiera e si riempie la teiera con la stessa acqua delle tazze precedentemente riempite.
  • Si pone sulla teiera l’apposito coperchio e si lascia riposare l’infuso per 4 minuti.
  • Si dispongono le tazze una vicina all’altra.
  • Trascorso il tempo indicato, si prende la teiera (tenendo fermo il coperchio con il pollice) e si versa in ciascuna tazza un dito di liquido facendo piu’ giri di riempimento per consentire a tutti di avere la stessa concentrazione di infuso.

Con le stesse foglie è possibile ottenere una seconda infusione.
Ancora oggi possiamo rivivere il rito del tè con il Matcha o pasteggiare con il Sencha …ma vale la pena gustare ognuna delle tantissime varietà di questa bevanda che nascono da una prodigiosa fogliolina!

Federica Cecconi

LA SOIA SULLA TAVOLA GIAPPONESE

A differenza dell’Occidente, il Giappone ha una nobile tradizione culinaria che vede la soia protagonista di importanti piatti-base che cominciamo a conoscere da questo mese. Mentre in Europa infatti gran parte della soia viene utilizzata soprattutto per l’estrazione di olio o farina nella produzione di alimenti sostitutivi della carne tanto cari ai vegetariani, la cucina giapponese utilizza al meglio gli ingredienti che si ricavano dal seme o dal germoglio di questa pianta ricca di benefici.
Piatto tipico per eccellenza è la zuppa di miso (“misoshiru”).
Il miso è una miscela fermentata di semi di soia gialla, acqua, sale e riso oppure orzo: i fagioli vengono cotti e ad essi si aggiunge prima l’orzo o il riso e successivamente un particolare fungo, l’Aspergillus oryzae, in grado di intaccare gli amidi dei cereali e di trasformarli in zuccheri semplici. Nel procedimento tradizionale si trasferisce il composto in grandi tini, lo si pressa con appositi pesi e si porta avanti una lunga fermentazione in acqua salata (che dura dai 12 ai 24 mesi). Industrialmente, invece, la fermentazione si riduce anche a poche ore, così da rendere necessaria la pastorizzazione ed eventualmente l’aggiunta di additivi per la stabilizzazione del composto.
In Giappone il miso venne introdotto dai monaci buddisti intorno al settimo secolo. Il processo produttivo fu via via perfezionato e il miso divenne ben presto alimento molto importante nella dieta dei samurai. Nel corso dei secoli, nacquero diverse varianti di questo piatto, elaborate nelle varie province dell’Impero.

Nel misoshiru il miso viene mescolato con un brodo (“dashi”) a base di acqua, sale, porro e alga “konbu”. Il risultato è una gustosa pietanza, onnipresente sulle tavole del Sol Levante: viene servita a colazione, pranzo e cena ma è anche un’ottima entrée che, facilmente digeribile, prepara ad un pasto più o meno abbondante. La zuppa di miso è infatti consumata in qualsiasi occasione e, bisogna dire, in qualsiasi situazione climatica: va servita bollente anche nelle umide giornate estive!
Altro alimento tradizionale è il “nattō”, piatto a base di fagioli di soia fermentati. La fermentazione, prodotta da un particolare batterio (Bacillus subtilis), dà luogo ad una sostanza filamentosa molto consistente che si amalgama strettamente coi semi. A descrivere ciò, gli ideogrammi che rappresentano il nattō sono quelli simboleggianti “filo” e “fagiolo”.

La leggenda narra che il nattō nacque per caso. All’approssimarsi dell’esercito nemico, nell’epoca delle grandi battaglie intestine che caratterizzarono il lungo medioevo giapponese, i samurai del Kyushu dovettero smobilitare velocemente il loro campo. La soia, cibo dei cavalli, venne cotta rapidamente per poterla meglio conservare e avvolta in panni di paglia di riso. Dopo giorni di combattimento, quando ormai l’esercito aveva esaurito le provviste, i soldati si risolsero a nutrirsi di quella soia che nel frattempo, grazie ai batteri presenti nella paglia di riso, era diventata nattō.
Il nattō, grazie all’abbondanza di fermenti, ha un’importante funzione regolatrice sulla flora e sulle funzioni intestinali; ricco di proteine e fibre, migliora il sistema immunitario e aiuta a ridurre il colesterolo.
Questo piatto è gradevolissimo e si apprezza con una punta di senape e una goccia di salsa di soia. Può essere consumato anche con del riso (pure nei maki) o con uova (crude o fritte). Tuttavia non tutti i giapponesi amano questa pietanza dall’aspetto e dal sapore davvero particolare. Se si chiede infatti a un giapponese cui non piaccia il nattō che cosa ne pensi, con la tipica attenzione nipponica alla gentilezza, è probabile che risponda qualcosa come “kenko ni ii ne…” ossia ” fa bene alla salute…”!

Federica Cecconi

ALIMENTO E CONDIMENTO – LA SOIA PIÙ AMATA

Il tofu è probabilmente il piatto a base di soia più diffuso in Oriente ma è molto amato anche in Occidente. Fu introdotto in Giappone verso la fine del VII secolo, durante il periodo Nara, e si affermò in concomitanza con il Buddismo che sosteneva l’importanza di una dieta vegetariana. In effetti il tofu, privo di colesterolo e di grassi saturi ma ricco di proteine, calcio e fosforo è un ottimo sostituto di carne e uova.
Il “formaggio di soia” è il risultato della cagliatura del latte di soia (che si ottiene mediante l’ammollo, la frantumazione, la bollitura e la successiva essiccazione dei fagioli di soia) per mezzo di una polvere (nigari) composta di cloruro di magnesio, estratto dall’acqua marina evaporata dopo la rimozione del cloruro di sodio. Il caglio viene disciolto in acqua e mescolato nel latte di soia portato ad ebollizione, finché l’impasto non coagula in una forma morbida.

A seconda della quantità d’acqua che si estrae dalla cagliata, il tofu può risultare più liscio e delicato (kinugoshi) o più solido (momendofu): quest’ultimo, asciugato utilizzando un apposito tessuto filtrante e poi pressato nella tipica forma di parallelepipedo, viene solitamente tagliato a cubetti.
L’utilizzo di questi panetti di tofu in cucina è infinito: alla piastra, fritto, stufato, in insalata… Apporta ad ogni piatto non solo il proprio delicatissimo sapore, ma sprattutto un gioco di consistenze che è difficile immaginare utilizzando altri ingerdienti occidentali. Ecco perchè viene utilizzato spesso in preparazioni giapponesi molto comuni come la zuppa di miso: la cucina giapponese è infatti molto attenta agli equilibri di sapore, colore e consistenza di ogni piatto.

La versione più morbida, quasi cremosa, detta silken tofu, è anche molto adatta a sostituire panna o latte in frullati, dolci o vellutate di verdura. Esiste poi anche una varietà di tofu secco, pressato in fette lunghe e sottilissime, che viene cotto a fuoco lento in salsa di soia oppure viene sbriciolato e fritto nella tradizionale ricetta “aburage”. L’aburage si abbina anche al sushi (inarizushi) e alle verdure (ganmodoki), ed i giapponesi lo consumano molto spesso in una zuppa di udon detta kitsune udon”, cioè “gli udon della volpe”, nome legato ad un’antica leggenda che vuole le volpi molto golose di tofu fritto…
Il tofu può essere inoltre trovato in commercio in salamoia o aromatizzato. Il tofu in salamoia è usato comunemente in piccola quantità con verdure stufate tipo gli spinaci d’acqua e spesso viene direttamente usato come condimento nel riso.
Poco diffusi in Italia ma grandemente apprezzati in Giappone sono invece i tofu aromatizzati con ingredienti dolci, di consistenza generalmente più morbida, tipo il tofu all’arachide (jimami-dōfu), il tofu alla mandorla, il tofu al mango o il tofu al cocco, ottimi come dessert a sè, magari accompagnati da frutta o sciroppi, o come ingredienti per la preparazione di dolci più comlpessi. Per produrre questo tipo di tofu vengono miscelate nel latte di soia, prima della coagulazione, zucchero, frutta acida e aromatizzanti.
In molti piatti salati il tofu, come dicevamo derivato dalla soia, avendo un sapore aabbastanza eneutro vienespesso aromatizzato con salsa di soia, condimento diffusissimo ed efficacissimo nell’esaltare i sapori. Un esempio tipico del perfetto matrimonio tra questi due prodotti dall’origine in comune è l’hiyayakko, una praparazione estiva in cui il tofu viene servito freddissimo contornato di vari condimenti, comen zenzero fresco grattugiato, cipolle verdi e, appunto, salsa di soia.

La salsa di soia (shoyu), prodotta dalla fermentazione della soia e del grano, fu introdotta in Giappone alla fine del VII secolo ad opera dei monaci buddhisti, che all’interno della loro dieta rigorosamente vegetariana la utilizzavano per conferire ai cibi un aroma simile a quello della carne. Tra le qualità nutritive della salsa spiccano proprietà digestive e un contenuto di antiossidanti dieci volte maggiore rispetto a quello del vino rosso.
La salsa viene preparata cuocendo al vapore la soia, mescolandola a grano tostato, sale e fermenti e facendo riposare il composto per 18/36 mesi in botti di cedro. Infine si passa alla pressatura, pastorizzazione e filtrazione del composto. Esistono molte varietà di salse, a seconda delle proporzioni di soia e grano utilizzati o del tempo di fermentazione. La salsa giapponese più antica e famosa è la Tamari, prodotta principalmente nella regione del Chubu utilizzando una maggiore quantità di soia rispetto al grano.


Il risultato è comunque un liquido di colore brunastro e dal sapore terroso e salato, in parte dovuto al contenuto naturale di glutammato monosodico, ma così unico da dar luogo ad una definizione apposita di gusto: “umami”, che si va ad aggiungere alla classica ripartizione occidentale dei sapori in salato, dolce, aspro ed amaro come una quinta forma di gusto.
Utilizzata sia per aromatizzare il cibo durante la cottura sia servita a parte per essere aggiunta al cibo come condimento a sè, la salsa soia riesce ad integrarsi e completare in modo armonioso ed originali molti altri condimenti come aceto, zenzero, olio e sesamo, mentre è ingrediente base di molte altre salse fondamentali della cucina giapponese come la salsa teriyaki per verdure e carne alla piastra, la kabayaki, per pesce ed in particolare per l’anguilla, o la tentsuyu in cui si intinge il tenpura.
Insomma…la soia, che sia condimento o cibo, è ottima in tutte le sue forme!

Federica Cecconi

LA PREZIOSA SOIA

Un alimento base della cucina giapponese è la soia: la sua importanza è superata solo dal riso.
E come il riso ha un grande valore nutritivo cui anche in Occidente negli ultimi decenni viene sempre più attribuita rilevanza da tutti coloro che, oltre ad amare il gusto inconfondibile che questo ingrediente dà ai piatti, tengono alla propria salute!
La pianta di soia è invece nota in Oriente da molto tempo…le prime notizie si leggono in alcuni scritti cinesi del 3000 circa a.C. in cui si parla di un “enorme fagiolo” (ta-teou). Secondo alcuni studiosi però la soia era conosciuta ancor prima poichè se ne ritrova il riferimento in antichissime leggende. Un imperatore inserì addirittura la soia tra le cinque piante definite sacre per la loro importanza (riso, frumento, orzo e miglio le altre).
In Occidente fu introdotta nel XVIII secolo in Francia e nel XIX in Italia; la prima esportazione vera a propria avvenne però nel 1804, quando un veliero americano di rientro negli Stati Uniti ne trasportò un carico importante. La coltivazione per scopi commerciali risale al 1929 ma è dopo la seconda guerra mondiale che si ha la definitiva diffusione e un aumento generalizzato di consumo.

Tante virtù

La soia ha infatti il vantaggio di poter essere coltivata in tutti i climi temperati e subtropicali. I risultati migliori si ottengono dove l’estate è moderatamente calda, con temperature medie comprese tra i 20 °C e i 30 °C, ma temperature superiori vengono in ogni caso ben tollerate.
Il Glycine max, da non confondere con la soia selvatica (Glycine soja), è una pianta erbacea botanicamente appartenente alla famiglia delle leguminose, con baccelli simili a quelli del fagiolo. E’ una pianta annuale, con altezza minima di 20 centimetri e massima di 2 metri, con tipica peluria brunastra che ne ricopre baccello, fusto e foglie. Le radici, analogamente ad altre leguminose, ospitano un batterio simbionte, Bradyrhizobium japonicum, che opera la fissazione dell’azoto atmosferico, processo attraverso cui l’azoto dell’atmosfera viene convertito in composti essenziali per la crescita della pianta stessa. Le foglie sono trifogliate, lunghe dai 6 ai 15 cm e larghe 2/7 cm. I fiori sono bianchi, rosa o viola, riuniti in piccoli grappoli. I frutti sono i baccelli, lunghi 3/8 cm e contenenti solitamente da 2 a 4 semi dal diametro di 5/11 millimetri.
Si può dire che esistano due varietà di soia, in base ai semi che la pianta dà:

  • soia gialla: la più commercializzata
  • soia nera: quasi sconosciuta in Occidente, coltivata esclusivamente in Giappone.

La composizione dei semi di soia, di qualsiasi colore essi siano, differisce nettamente da quella degli altri legumi per il suo elevatissimo contenuto proteico.
Ma non solo: nel seme della soia sono racchiusi moltissimi elementi benefici per il nostro organismo. Per 100 grammi di soia abbiamo infatti, oltre a 40/50g di proteine, da 12 a 25 g di carboidrati, 10 g di fibre e 18/20 g di grassi polinsaturi essenziali, indispensabili veicoli delle vitamine liposolubili (A, D, E, K, F). La soia è inoltre ricca di vitamina A, E, B12, sali minerali, calcio, fosforo, potassio, magnesio, ferro, zinco…contiene poi la più alta concentrazione di aminoacidi essenziali e di estrogeni vegetali (isoflavoni).
Gli isoflavoni regolano naturalmente la produzione ormonale corporea bloccando anche la ricezione di estrogeni pericolosi e cancerogeni di origine chimica: aiutano così a proteggere dal rischio di tumori. Ancora, la soia è considerata un valido strumento per limitare il rischio di insorgenza di patologie cardiache, renali (migliora la funzione di filtro propria dei reni), muscolari, ossee e nervose.
Infine è ben noto l’effetto della lecitina, di cui la soia è ricca, sulla colesterolemia, in quanto aumenta il colesterolo HDL (cosiddetto “buono”) contrastando quindi gli effetti del colesterolo LDL (“cattivo”).

Insomma questa pianta è davvero una preziosa risorsa per la salute del nostro corpo e il suo seme è un ricco concentrato di sostanze benefiche e nutrienti, tanto che sono in commercio anche integratori ricostituenti a base di soia.
Non dimentichiamo però che il Glycine max è anche e soprattutto un interessante protagonista dell’arte culinaria giapponese: esso è perfetto nei molteplici usi e nelle tante squisite ricette di una tradizione millenaria che andremo presto a conoscere!

Federica Cecconi

BREVI CENNI SULLA VARIETÀ DEL FUNGO GIAPPONESE

Fungo in giapponese si dice kinoko’ (きのこ), letteralmente ‘figlio degli alberi’, in quanto i funghi sono soliti crescere proprio ai loro piedi.
Di seguito potete trovare alcuni dei funghi più popolari in Giappone.

Shiitake (椎茸Lentinula edodes), letteralmente significa “fungo del faggio”, in quanto è pressochè sotto lo shii, albero della famiglia dei faggi, che esso viene coltivato.
E’ di gran lunga il fungo pù popolare in Giappone, originario della Cina e coltivato da più di 1000 anni. E’ caratterizzato da un profumo unico e viene utilizzato nella stragrande maggioranza dei piatti tradizionali della cucina nipponica, nella zuppa di miso, nei brodi (dashi) vegetariani, nel tempura, nei nabe, ( piatto giapponese a base di carne e verdure cotte in una apposita casseruola, detta appunto nabe, posta su una piastra o un fornelletto direttamente sul tavolo). Da noi si trovano soltanto essiccati e vanno reidratati in acqua tiepida prima di utilizzarli. Il loro gambo, molto duro, non viene usato. Lo shiitake è da tempo studiato nelle università di tutto il mondo per la sua efficacia nel trattamento di alcuni tumori, nella riduzione dei livelli di colesterolo nel sangue e perché stimolante il sistema immunitario.

Maitake (舞茸, Grifola frondosa), che vuol dire “fungo della danza”, probabilmente per le danze di gioia che accompagnavano il ritrovamento di un buon quantitativo. E’ un fungo perenne che cresce in raggruppamenti, spesso massicci, generalmente ai piedi delle querce. Si usa solitamente nel tempura

Shimeji (しめじ), cresce a grappoli ai piedi degli alberi di pino, è un fungo molto comune in Giappone e viene utilizzato spesso nella cucina giapponese, nella zuppa di miso, nel nabe, nel tempura, pur se di sapore estremamente delicato. Probabilmente appartiene alla stessa famiglia dei nostri chiodini.

Enokitake (えのき茸, Flammulina populicola), lunghi e di colore bianco, crescono a mazzetti prevalentemente sui ceppi di una pianta detta appunto enoki e vengono utilizzati nei piatti di nabe. Ne esiste anche una varietà selvatica di colore marrone, detta nameko.

Matsutake (松茸 Tricholoma matsutake) è il re dei funghi giapponesi, un po’ come il nostro fungo porcino. Cresce in simbiosi con le radici di specie limitate di alberi e viene comunemente collegato al pino rosso giapponese (matsu) da cui prende il nome.
Questo fungo è particolarmente raro poiché cresce sotto la base di vecchi pini e solo una volta nello stesso posto. Ecco spiegato il suo alto valore economico che lo rendono unico e speciale. Ha un aroma speziato, simile alla cannella, che non svanisce con la cottura, e viene utilizzato in tutti i piatti, divenendone un vero e proprio valore aggiunto. Regalare questo tipo di fungo è considerato un gesto unico e molto speciale in Giappone.